La vigilia di Natale non ce l’aveva proprio più fatta a tenerselo sullo stomaco: «Si parla tanto del caso di Eluana – aveva detto – e noi di ' Eluane' ne abbiamo molte. Nonostante non se ne parli, la spina noi non la stacchiamo». Monsignor Vinicio Albanesi guida la Comunità di Capodarco, che di donne e uomini nello stesso stato vegetativo di Eluana Englaro ne segue tre ( oltre a decine e decine di disabili gravi e gravissimi in condizioni fors’anche peggiori). Tre persone che vivono nella comunità e «in mezzo a noi», assistite ventiquattr’ore su ventiquattro, seguite da una nutrita cerchia di medici. E che erano entrate lentamente o improvvisamente in stato vegetativo.
Perché mai «non staccate la spina», don Vinicio? Perché una persona in stato vegetativo è come un neonato, che non può difendersi, che non riesce a esprimere desideri e comunicare. Quindi è la persona più fragile che possa esistere al mondo.
Persona? Come si può definirla tale? Cos’altro è o dovrebbe essere? Non so, un essere sceso dalla luna o una specie di ' corpo estraneo'? Su, come si fa a non parlare di persona?
Forse è che la loro vita non ha più una dignità tale da essere vissuta? Stiamo scherzando o cosa? Eluana non ha creato relazioni? Non sta creando relazioni? Non è una presenza umana? Chi, poi, può dire fino a giurarlo che lei non abbia canali comunicativi?
Resta però lo stato vegetativo Lo stato vegetativo è uno stato nel quale esternamente e cerebralmente non si manifestano reazioni, non si risponde, non si comunica. Però si vive. Si respira. E noi non conosciamo tutti i livelli di conoscenza e sensazioni che una persona ha seppure non riesca ad esprimerli all’esterno.
Don Vinicio, basta insomma respirare per essere vivi? Quando il suo cuore batte da solo, la sua carne è calda, i suoi polmoni sono capaci di respirare e lei di aprire e chiudere gli occhi, una persona è morta? Non scherziamo, davvero.
Nemmeno quando le probabilità che si risvegli sembrino bassissime? Le dico molto di più, a me non interessa affatto se si risveglierà o meno, o calcolare quante sono le probabilità che lo faccia: io l’accudisco perché è viva e perché le voglio bene. Le persone sono abituato ad accompagnarle al cimitero quando sono morte e non prima.
Molti però direbbero che lei, così, si permette di ledere la libertà che ognuno dovrebbe avere di farsi ciò che vuole. Quando uno lotta per la vita, lo fa perché la ritiene ancora bella, utile e degna di essere vissuta: è quando si sente che la propria lotta è finita, fisicamente, proprio fisicamente, come in un malato terminale, che allora è un’altra cosa.
Cioè quel che avrebbe voluto Eluana? No. Quel che dice il padre di Eluana.
Se una delle vostre persone in stato vegetativo le avesse detto, qualche anno fa, «se dovessi finire in quelle condizioni, staccami qualsiasi macchina o toglimi nutrimento e idratazione», lei che avrebbe fatto? Non le avrei dato retta. E perché? Non mi si può chiedere questo. Sarebbe come se uno dei nostri tossici mi dicesse «dammi i soldi per comprarmi la droga» . Io aiuto le persone.
Poniamo allora che sia un malato terminale a chiederle di essere lasciato morire: lei che farebbe, don Vinicio? Lo accompagnerei alla morte senza infierire su di lui: senza mantenerlo in vita ad ogni costo con mezzi spropositati. Senza accanimento terapeutico. Anzi, a quel punto, credo che si abbia ogni diritto ad avere una preghiera per la buona morte.
Ecco, a proposito: nutrizione e idratazione secondo lei sono un ' accanimento terapeutico'? No, affatto: sono semplicemente necessarie alla sopravvivenza. Sa cos’è l’accanimento terapeutico? Ne vuole un esempio? Quando qualcuno sta morendo a volte gli iniettano la dopamina, che fa pulsare qualche ora in più, meccanicamente, il cuore e basta.
Questo non sembra esser troppo rispettoso del diritto alla morte. È evidente che non lo sia. Il punto è che dobbiamo imparare a rispettare anche il diritto alla vita.
La morte, don Vinicio, non fa parte della nostra storia personale? Certo, ma quando è esaurita la vita. Ripeto: se un malato è terminale di cancro, cerchi di non farlo soffrire e lo accompagni fino al momento della morte. E quest’ultima non è uno ' scandalo': fa parte della naturalità della nostra vita. Alla sua fine.