Bambini. Adozioni, ultimo sos. Coppie da sostenere
Elisa e Maurizio nell’orfanotrofio di Goma, in Congo
Rilancio o naufragio? Nei prossimi mesi il sistema adozioni si gioca tutto. Si tratta di decidere come sostenere questa forma straordinaria di sostegno all’infanzia più vulnerabile che è anche mezzo prezioso di cooperazione internazionale. Non è in discussione il fatto che ci siano nel mondo circa 150 milioni di bambini orfani (dati Unicef).
E neppure il dovere di considerare forme d’aiuto possibili per regalare un futuro a piccolo rimasto senza famiglia. Ma ci sono una serie di difficoltà oggettive che impongono una riflessione urgente. Se le strutture non diventano più flessibili, non si sostengono famiglie ed enti, non si rinnova la legge, non si rilancia sul piano politico internazionale, l’adozione internazionale – almeno come l’abbiamo conosciuta e promossa per tanti anni – è destinata a un progressivo tramonto. Di questo parleranno giovedì prossimo i rappresentanti dei quattro coordinamenti in cui sono confluiti gli enti autorizzati con il vicepresidente della Commissione per l’adozione internazionale (Cai), Vincenzo Starita.
Il sistema dell’adozione internazionale conosce da qualche anno una situazione paradossale tra speranze e preoccupazioni. La speranza nasce dal senso di accoglienza che, nonostante tutto, continuano a esprimere le coppie italiane. A fine giugno, quelle che avevano ottenuto l’idoneità del Tribunale e avevano avviato l’iter per l’adozione, erano ancora 2.700. Un numero che, a livello mondiale, è secondo soltanto a quello degli Stati Uniti, dove però il percorso adottivo è molto più semplice e, soprattutto, i genitori potenziali sono quasi dieci volte di più.
Dove invece l’Italia detiene un primato senza discussione è nell’accoglienza dei bambini cosiddetti special need (con bisogni speciali), cioè con problemi psicofisici o già grandicelli. Da almeno un decennio, questi piccoli rappresentano il 60% del totale accolto dalle coppie italiane. Una percentuale che non trova riscontro in alcun Paese del mondo. «Un dato positivo? Certamente – osserva Pietro Ardizzi, rappresentante del coordinamento "Oltre d’adozione" che raggruppa il maggior numero di enti – perché dimostra una generosità commovente, ma anche un dato che suscita tanto rammarico. Con questa base di apertura e di disponibilità all’accoglienza quanto bene si sarebbe potuto fare se le istituzioni si fossero mostrate più attente e più capaci?».
Non è successo, purtroppo. E i dati parlano chiaro. Nonostante le coppie in attesa siano, come detto, ancora relativamente numerose, quelle che riescono a portare a termine un’adozione sono sempre meno. Da gennaio a giugno i bambini stranieri diventati figli di una coppia italiana sono stati solo 245. Se si dimentica il catastrofico 2020, e si prende come riferimento il 2019, il calo è evidente. Due anni fa i bambini erano stati, nello stesso periodo, 458.
Se non saranno adottati provvedimenti per rendere più agili le procedure e non saranno rinnovati gli accordi con i Paesi di provenienza, le coppie che hanno ottenuto l’idoneità saranno costrette ad attese sempre più lunghe, cinque o sei anni in media. E anche questa è una pesante ingiustizia, sia nei confronti delle speranze di genitorialità delle coppie, sia verso i bambini confinati negli orfanotrofi, quasi sempre in condizioni di grave marginalità educativa e psico-fisica.
Perché si verificano rallentamenti così significativi? Servono azioni diplomatiche mirate ad ottenere la fiducia dei Paesi di provenienza che, sempre più spesso chiudono alla possibilità dell’adozione. Troppo a lungo sono stati dimenticati progetti di cooperazione che avessero al centro l’emergenza minori. Ora, gli otto progetti sostenuti dalla Commissione adozioni internazionali di cui parliamo qui sotto, sembrano delineare una strategia diversa e, finalmente, più concreta.
Ma quanto tempo ci vorrà ancora per passare dagli interventi, pur lodevoli della cooperazione, alla riapertura delle frontiere? E quanto tempo sarà necessario per recuperare la fiducia nelle coppie adottive? Marco Griffini, presidente di Aibi – che con Cifa e Ariete fa parte di un altro coordinamento, il Lian – punta il dito sulla difficoltà legate alle procedura per i rimborsi. E si tratta di un altro problema strutturale del nostro sistema. Accogliere un bambino senza famiglia, come più volte scritto, non è solo difficile dal punto di vista delle procedure e delle attese, ma è anche molto costoso. «Delle 11.138 coppie che avrebbero avuto diritto al rimborso delle spese sostenute per adottare dal 2012 al 2017 (i rimborsi erano anche fermi da 6 anni), solo 6.000 sono arrivate al traguardo della conclusione delle procedure di richiesta. Il 46% vi ha quindi rinunciato strada facendo, ritenendo evidentemente il beneficio del rimborso inferiore alle incertezze e alle difficoltà per ottenerlo».
Perché allora non pensare a bonus unico per tutti da 10mila euro? «Darebbe maggiori garanzie alle famiglie, con tempi certi e interventi più puntuali. E permetterebbe allo Stato di risparmiare. Noi enti lo proponiamo da anni. Inutilmente».
Come inutilmente si susseguono le proposte di riforma di una legge che si avvicina stancamente al traguardo dei 40 anni e che dovrebbe essere oggetto di una profonda revisione. Perché, se non si mette mano alla legge, è inutile pensare a diverse forme di sostegno per le coppie adottive e a nuovi percorsi di idoneità in cui si possa finalmente attualizzare il ruolo dei tribunali per i minorenni. Ma occorre fare presto. «Lasciare tutto così com’è – concordano gli enti – vuol dire condannare l’adozione internazionale a fine sicura».