Il dramma dei rifiutati. Adozioni, anche l'Italia scopre il fallimento
I magistrati minorili, soprattutto quelli che hanno già alle spalle alcuni decenni di militanza, guardano ormai al pianeta adozioni con un atteggiamento a metà strada tra il rispetto e la preoccupazione. Il rispetto si deve – spiegano – alle coppie che scelgono di aprirsi a una scelta di generosità bellissima ma comunque impegnativa. La preoccupazione è legata, oltre che alle dinamiche ordinarie di un processo di integrazione familiare in cui le incognite sono tante, alle caratteristiche che in quest’ultimo decennio si sono affermate in modo sempre più evidente. Non si tratta solo del calo generalizzato delle adozioni che ha riguardato tutti i Paesi occidentali e ha determinato una “perdita” di quasi 100mila bambini negli ultimi 15 anni con un crollo dell’80 per cento a livello mondiale, ma di altri fattori di difficoltà che riguardano la tipologia delle nuove adozioni.
Innanzi tutto la prevalenza di minori con problemi di vario tipo. Non solo è aumentata in modo costante l’età media dei minori considerati adottabili, sono cresciute in modo esponenziale le cosiddette difficoltà aggiuntive. Da Paesi come India o Cina per esempio arrivano ormai quasi soltanto bambini dagli 8-10 anni in su, spesso affetti da piccole patologie psico-fisiche. La stessa tendenza che si registra ormai da anni da parte dei Paesi latinoamericani.
Ora, se è vero che si tratta frequentemente di situazioni certo ancora complicate nelle nazioni d’origine ma ormai facilmente risolvibili in Italia con pochi interventi di routine, come quelli per esempio necessari per guarire una labiopalatoschisi, è altrettanto vero che sia l’età prepuberale sia le patologie da cui sono affetti questi minori complicano non poco l’inserimento nelle famiglie. Si tratta di processi che spesso proseguono per anni attraverso sofferenze e delusioni, con genitori angosciati dalla paura di quello che succederà e dal disagio di non poter disporre degli strumenti necessari, non solo sul piano educativo, per fronteggiare situazioni che richiederebbero un approccio multidisciplinare personalizzato e prolungato nel tempo. Non deve stupire allora che, di fronte a queste situazioni, i fallimenti adottivi siano in aumento.
Quanti in Italia? Non esistono statistiche ufficiali. Tradizionalmente la percentuale delle situazioni così complicate da costringere i genitori ad alzare bandiera bianca era fino a pochi anni fa dell’uno per cento sul totale delle adozioni internazionali. Il problema è invece quasi irrilevante per quelle nazionali – circa un migliaio all’anno – visto che ormai per la quasi totalità si tratta di neonati abbandonati alla nascita. Oggi, a parere degli esperti che seguono queste realtà, la statistica dovrebbero essere rivista.
Considerando le segnalazioni che arrivano dalle varie Procure per i minorenni si potrebbero valutare i fallimenti in un 2-3 per cento del totale. Considerando che nel 2017 in Italia le adozioni internazionali sono risultate 1.439, secondo i dati ufficiali diffusi dalla Cai, Commissione adozioni internazionali – erano state 4.130 nel 2010 –, i fallimenti potrebbero essere una quarantina l’anno. Ma ripetiamo, si tratta di stime che attendono una conferma. Sarebbe interessante che nel corso del grande convegno nazionale sullo stato delle adozioni in Italia, organizzato dalla Cai a Firenze per il prossimo 19 ottobre, si potesse affrontare anche questo aspetto.
Non sembrano numeri imponenti, eppure ciascuna di quelle rinunce porta con sé un carico di dolore e una sensazione di fallimento che dal minore e dalla sua famiglia si allarga all’intero sistema delle adozioni. Se non verranno messe a punto strategie adeguate per fronteggiare un fenomeno di cui è ancora difficile valutare l’impatto reale, non è esagerato prevedere che i casi diventeranno sempre più numerosi e i buoni propositi delle coppie ancora decise a perseguire la strada dell’accoglienza di un bambino senza famiglia, rifiutando le scorciatoie spesso illusorie della fecondazione assistita, ne risulteranno scoraggiati. Ma senza aiuti organizzati e sistematici sarà quasi impossibile rovesciare una prospettiva che si annuncia irta di obiettive problematicità.
L’adozione di un minore originario di un Paese asiatico o latinoamericano, in età prepuberale o adolescenziale, tra i 10 e i 14 anni, quindi con un pregresso di esperienze spesso traumatiche e comunque lontanissime dalla routine di normali dinamiche familiari, tanto più se affetto da disagio psicologico o da altre patologie organiche, non può che prevedere costanti interventi in rete. Due neogenitori adottivi, sicuramente animati dalla migliori intenzioni ma privi, com’è inevitabile, di conoscenze specialistiche di tipo psico-pedagogico, non possono pensare di fare da soli. Ma il dopo-adozione in Italia è ancora lasciato alla buona volontà dei singoli. I tribunali non hanno possibilità di interventi finalizzati all’accompagnamento costante delle coppie.
I percorsi di sostegno organizzati dagli enti autorizzati – ne esistono di accuratissimi – hanno, però, dei costi. Giusti ed inevitabili. Ma non tutte le famiglie, dopo le spese sostenute nei mesi, spesso negli anni, precedenti l’adozione, dispongono di risorse da investire ancora. Il fai da te, anche nelle situazioni più complesse, più che scelta, è quindi spesso necessità, speranza di poter fronteggiare solo con un supplemento di amore e di dedizione, problemi che invece richiederebbero aiuti professionali di alto livello. Spesso, quando la coppia di rende conto di aver esaurito le possibilità di intervento, è ormai troppo tardi. Il grido d’allarme arriva ai servizi sociali che, dopo qualche misura palliativa – anche le disponibilità dei Comuni sono sempre più limitate – nell’impossibilità di operare diversamente, attivano nuovamente il tribunale dei minorenni. E il cerchio si chiude.
Puntare su un’altra famiglia più attrezzata? È una strada che non viene mai tralasciata. Ma le coppie con “professionalità” educative adeguate per quasi casi complessi non sono infinite. Oppure si cerca l’aiuto di una casa famiglia o di un centro professionale. Ma per il ragazzo “rifiutato” si apre un percorso tutto in salita, pesantemente gravato da un fallimento di cui si sente totalmente colpevole e di cui, spesso, non comprende né ragioni né sviluppo. Impedire che nella vita di questi ragazzi si inneschi la triste girandola degli affidamenti, con un susseguirsi deleterio di figure di riferimento che una dopo l’altra dichiarano la propria incapacità di governare la situazione, è un dovere che tocca da vicino non solo le autorità dell’adozione ma anche enti, associazioni e famiglie.
Come confermano i più prudenti magistrati minorili, alcune adozioni «non sono per tutti» e, in un contesto internazionale in cui quelle complesse sono statisticamente lievitate, occorre raddoppiare le attenzioni per non moltiplicare i casi, dilatare le sofferenze, innescare situazioni ingestibili che dall’ambito familiare diventano subito problema sociale. Se vogliamo che l’adozione internazionale rimanga, come in questi ultimi trent’anni, una straordinaria opportunità di solidarietà umana e di cooperazione internazionale, uno scambio affettuoso di relazioni virtuose finalizzato a regalare una famiglia a un bambino che non l’ha mai avuta o a cui è stata tolta per i motivi più diversi, è assolutamente necessario che anche un futuro progetto di riforma non trascuri questi aspetti. Rilanciare l’adozione internazionale, offrire nuovi e più sicuri strumenti di collaborazione alle famiglie, è soltanto un gesto di coerenza e di giustizia nei confronti dei 120 milioni di bambini che in tutto il mondo attendono due genitori disposti ad abbracciarli per sempre. I tentativi a tempo determinato qui non possono essere ammessi.
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