Attualità

Abiti puliti. Salari sotto la soglia di sopravvivenza nelle multinazionali della moda

Luca Liverani sabato 8 giugno 2019

Bangladesh, industria di abbigliamento (Clean Clothes Campaign, Kristof Vadino)

Lavorano per i grandi marchi dell'abbigliamento e dello sport, ma guadagnano paghe di gran lunga inferiori a quello che è considerato nei loro stessi paesi un salario dignitoso: meno di un quarto in Etiopia o Bangladesh, solo un sesto in Romania. Sono gli operai del settore tessile, le maestranze che producono la ricchezza delle grandi multinazionali. Poveri, insomma, anche se hanno un lavoro vero. Sì, perché nonostante le dichiarazioni e gli impegni, nessuna grande azienda dell'abbigliamento è stata in grado di dimostrare che i lavoratori che producono i loro capi in Asia, Africa, America Centrale o Europa Orientale siano pagati abbastanza per sfuggire alla trappola della povertà.

È la denuncia che emerge dallo studio "Salari su misura 2019: lo stato delle retribuzioni nell’industria globale dell’abbigliamento", pubblicato dalla Clean Clothes Campaign attraverso l'analisi delle risposte di 20 grandi marchi della moda sui loro progressi nell'implementazione di un salario vivibile per i lavoratori che producono i loro vestiti. Dalla ricerca è emerso che l'85% dei marchi si è impegnato in qualche modo a garantire che i salari siano sufficienti a soddisfare le esigenze di base dei lavoratori, ma, contemporaneamente, nessuno di loro ha messo in pratica questo principio per i loro lavoratori nei Paesi in cui viene prodotta la stragrande maggioranza dei capi di abbigliamento. Marchi come C&A, H&M, Zara, Primark, Nike, Adidas e Zalando, tra gli altri, sono tutti responsabili di non aver fatto abbastanza per arginare la povertà dei lavoratori.

I salari di base in Etiopia e Bangladesh sono rispettivamente il 21% e il 23% del salario dignitoso, cioé meno di un quarto. In India e in Cambogia il 36%, in Romania il 16% come in altri paesi dell'Europa orientale. Sempre molto meno di quanto è necessario per vivere con dignità e mantenere una famiglia. Di conseguenza - è la denuncia della Clean Clothes Campaign - i lavoratori sono costretti a vivere in baraccopoli, soffrono di malnutrizione e debiti, spesso non possono permettersi di mandare i loro figli a scuola, il tutto mentre lavorano ore e ore di straordinario per cercare di sbarcare il lunario.

Spiega Anna Bryher, autrice del rapporto: «A cinque anni di distanza dalla nostra precedente indagine, nessun marchio è stato in grado di mostrare alcun progresso verso il pagamento di un salario vivibile. La povertà nell'industria dell'abbigliamento sta peggiorando. È una questione urgente. Il nostro messaggio ai brand è chiaro: i diritti umani non possono aspettare e i lavoratori che realizzano i capi venduti nei nostri negozi devono essere pagati abbastanza per vivere con dignità».

Dei 20 marchi intervistati, 19 hanno ricevuto il voto più basso possibile, mostrando di non essere in grado di produrre alcuna prova che a un lavoratore che confeziona i loro capi di abbigliamento sia stato pagato un salario vivibile in qualsiasi parte del mondo. L'unica eccezione è stata Gucci, che è riuscita a dimostrare come, per una piccola parte della sua produzione in Italia, grazie alle trattative salariali nazionali, le paghe consentano a una famiglia di vivere in alcune zone del Sud e del Centro Italia. «Le iniziative volontarie non sono riuscite a garantire i diritti umani dei lavoratori», aggiunge Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign. «Il modello economico globale che spinge i prezzi al continuo ribasso e mette in competizione i Paesi a basso salario è troppo forte. È un dato di fatto che i lavoratori che producono quasi tutti gli abiti che compriamo vivono in povertà, mentre le grandi marche si arricchiscono grazie al loro lavoro».

Deborah Lucchetti conclude: «I marchi e i distributori globali sanno da anni che i salari pagati ai lavoratori non sono sufficienti per permettergli di vivere con dignità ma continuano a fare promesse vuote mentre rastrellano profitti enormi. Se i marchi fossero davvero impegnati a pagare un salario dignitoso, dovrebbero passare dalle parole ai fatti, scegliendo un parametro di riferimento credibile, informando i fornitori e aumentando i prezzi di acquisto in coerenza. Dovrebbero iniziare subito con i 50 maggiori fornitori e rendere pubblici i libri paga, a dimostrazione che ciò stia realmente accadendo. È una questione affrontabile, basta mettere mano alla redistribuzione della catena del valore e pagare di più i lavoratori».