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Milano. La solidarietà è condivisione: il pranzo della domenica con i senzatetto

Cinzia Arena sabato 15 marzo 2025
La solidarietà è condivisione: il pranzo della domenica con i senzatetto

«La valigia? È la mia casa portatile: dove vado io, va anche lei». Cappello di lana, barba bianca e uno sguardo triste che buca gli occhiali, Antonio è uno dei senza fissa dimora che popolano le vie del centro di Milano. Discreto, avvolto in un giaccone nero, racconta che da tre anni è tornato a vivere in strada, in tenda com’è ormai abitudine consolidata in città. Con un’enorme valigia grigia al seguito, la sua casa, come fanno in pochi. Lo aveva già fatto in passato, più volte ha tentato di “rifarsi” una vita, ma poi c’era sempre qualcosa, l’ultimo imprevisto un incidente in moto, che lo riportava al punto di partenza. Un “ritenta” ma senza che la fortuna passasse mai. Lo incontriamo ad un appuntamento informale e pieno di allegria, come solo le cose spontanee sanno essere. Un brunch sotto i portici che sembra quasi un pic-nic, una tavola imbandita lunga parecchi metri, con tanto di pasta al sugo, torte fatte in casa e caffè caldo nel termos. In un angolo un mercatino dell’usato improvvisato dove non si vende ma si regala un po’ di calore, con giubotti e scarpe che vengono prelevati da scatoloni e provati sul posto. Un incontro che si tiene una domenica al mese in uno dei luoghi simbolo della città che corre sempre e che fattura: piazza Affari, la sede della Borsa. L’idea è semplice ma al tempo stesso rivoluzionaria. Perché non si tratta solo di distribuire cibo e coperte a chi è meno fortunato, ma di condividere il pranzo e, cosa ancora più preziosa, il tempo. Di stare insieme, non di fare la carità per mettere a tacere la coscienza.

Ad animare un gruppo di volontari colorato e variegato, quasi più numeroso degli “ospiti” invitati a pranzo, è Marco che organizza una serie di attività solidali: dalla consegna di pasti caldi la sera, in centro e in stazione Centrale, alla raccolta di indumenti usati, alla squadra di calcio “Atletico ProTetto” che ha come obiettivo sensibilizzare l’opinione pubblica oltre che far “muovere” chi vive in strada. Impossibile non conoscerlo, dicono in coro i senza tetto, è sempre pronto ad aiutare. Ma ha anche il “polso” fermo: quando i toni si animano per una bottiglia di vino contesa, la fa “sparire” nello zaino di un volontario. Fine della storia.

Marco ha una società di catering e l’idea di distribuire le pietanze alla fine degli eventi gli è venuta, ormai otto anni fa, per caso. Stava rientrando da un matrimonio e ha proposto ai suoi dipendenti di andare a mangiare una pizza in centro. Passando sotto i portici di largo Corsia dei Servi ha notato tanti senza fissa dimora e si è fermato per offrire la torta avanzata. È stata una folgorazione. Da allora non si è più fermato grazie anche al tam tam che corre su Facebook, a dimostrazione che i social media se usati bene possono essere utili, e al sostegno di un’associazione di genitori single. «Quando l’ho proposto agli organizzatori mi hanno detto “non verrà nessuno” e invece già la prima sera c’erano 25 persone disposte a dare una mano, ognuna secondo il suo modo di essere». Portando abiti dismessi, ma anche coperte, sacchi a pelo e generi di prima necessità come bottigliette d’acqua, fazzoletti di carta, salviette e caramelle. Una rete solidale che nel tempo è cresciuta diventando una vera e propria famiglia. «Siamo un gruppo di amici, qui non c’è distinzione tra le persone. Queste sono le cose che fanno tenere i piedi per terra» spiega Simon che arriva da fuori Milano per partecipare. Elena aggiunge che è sempre stato nel suo dna il volontariato, in questa come in altre forme. A casa ha due figli grandi che per una volta si arrangeranno con il pranzo. Laura e sua sorella hanno risolto il problema portandosi dietro i figli, entrambi di dieci anni, per far vedere loro un’altra Milano. «Vogliamo trasmettere l’idea che siamo tutti una comunità che c’è un senso di appartenenza» dicono. Il clima è di festa e di grande serenità. Il cibo finisce in fretta ma viene anche messo da parte, in apposite schiscette di cartone, per chi non è potuto venire. Molti, soprattutto le donne, non si spostano dal loro angolino perché hanno paura di lasciare incustodite le loro cose. Sulle sedie apri e chiudi si alternano senza soluzione di continuità volontari e ospiti.

C’è anche una coppia: Chandra e Andrea, con un bel cane al seguito, subito monopolizzato dai bambini. Nonostante siano in due non riescono a permettersi quattro mura. «Ho una figlia di 22 che ha una casa, almeno lei è a posto. Da due anni vivo in strada per amore perché ho incontrato lui» racconta la donna aggiungendo, con un sorriso, che non le fa mancare nulla. Andrea è uno dei tanti padri separati che ha perso tutto in un colpo solo: il lavoro, la casa e i figli, affidati alla ex moglie in maniera esclusiva. «Sono tre anni e mezzo che non li vedo ma va bene così, preferiscono soffrire io». Lavora come elettricista e guadagna in modo regolare ma la casa in affitto sembra un traguardo impossibile. «Non ho i soldi per la caparra e a Milano si sa i prezzi sono elevati, senza considerare che non so chi mi farebbe un contratto». Lo scoglio principale per molti è proprio la questione abitativa. La storia di Davide è invece quella di una scelta. Ha 52 anni e due anni fa ha deciso di ritirarsi dal mondo e vivere in strada. «Sono caduto in depressione quando sono morte le mie sorelle, volevo proprio isolarmi. Ho avuto una vita difficile sono rimasto orfano e sono andato in collegio. Poi 15 anni all’estero, lavoravo in una pizzeria». Adesso vive ancora in strada ma spesso accetta ospitalità nei dormitori o presso amici e ha deciso di mettersi al servizio dei nuovi arrivati. Tra loro, un ragazzo di appena 28 anni, jeans e scarpe da montagna, zainetto in spalla. Si aggira spaesato sotto i portici. Ha perso il lavoro e da due giorni è finito a dormire in strada. «Non vuole parlare, è normale, non sappiamo qual è la sua storia ma sicuramente riuscirà a tirarsi fuori…» aggiunge Davide. La verità è che basta un attimo per ritrovarsi dall’altra parte della barricata mentre ce ne vuole di forza per risalire la china. «In questi anni ho visto sei persone che conoscevo morire di stenti e di freddo – racconta Marco –. A Milano la rete di assistenza è capillare ma per chi vuole farsi aiutare. Molti non sono in grado di fare nemmeno questo, figuriamoci di lavorare. Poi ci sono quelli che finiscono in questa condizione per caso, alcuni prendono anche la Naspi. Dopo un po’ riescono a tirarsi fuori. Con tanta determinazione». A distanza di anni vengono ancora a salutare: l’aiuto ricevuto in un momento di estrema fragilità non si dimentica.

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