E' un paese per vecchi e per bambini, Sàlcuta, in Romania. Un villaggio di soli piccoli e anziani rom. Gli adulti, uomini e donne, sono partiti per l’Italia. Sàlcuta, Bals, Tântâreni, Lipov: da qui arrivano (e periodicamente qui fanno ritorno, più “pendolari” che “nomadi”) quasi tutti i rom di Milano. Quelli dei campi regolari e quelli dei campi abusivi più volte sgomberati. Alcuni sono anche a Roma, Napoli, e perfino Barletta. I loro villaggi in Oltenia, la regione intorno a Craiova, sono isolati dalle cittadine vicine. Fisicamente, da chilometri di sterrato e fango. E socialmente: l’integrazione con la popolazione romena qui è difficile come altrove, anche se all’anagrafe ufficiale non ci sono differenze etniche. A stento arriva la luce elettrica, nei villaggi. Le fognature e i condotti idrici si fermano alla soglia delle strade dei “mattonari”, dei “musicisti”, dei “ramaioli”. Così vengono classificati dai romeni, secondo le principali attività dei gruppi. Attività fittizie perché non producono reddito. «Non vogliono lavorare, i rom». In romeno «rom» ha l’iniziale doppia, ha il suono di un motore in panne. Per arrivare a strada Petre Pandrea, un abitato rom nel distretto di Bals, bisogna attraversare i binari della ferrovia. Capita di rimetterci una gamba: una giovane donna, Jonica Liliana Constantin, da bambina è finita contro il treno. Arriva zoppicando quando sente dell’arrivo degli italiani, quelli della Casa della Carità di Milano, che l’hanno aiutata quand’era in Italia. Ha vissuto a Cologno Monzese e a Rho, in piccoli campi nomadi. Ha chiesto l’elemosina in piazza Duomo e alla stazione Cadorna. «Tornare a Milano » è il pensiero fisso da quando è a Bals, col figlio di sei anni. Il piccolo va al vicino asilo, ma dopo? Passano frotte di bambini radenti ai binari, i più grandicelli portano in spalla i più piccoli. Non vanno a scuola. «Ci chiamano zingari», sorride amara Jonica. «Tzigani». Ma qui non ci sono violini e larghe gonne a fiori. Ci sono catapecchie di legno in mezzo fango e cani randagi. Vecchi che vanno in paese a riempire le taniche d’acqua. Unico segno del progresso sono le antenne paraboliche, issate perfino sulle baracche. In tv c’è una telenovela che spopola tra i rom, perché ne è l’epopea romanzata, “Cuore zingaro”. «Sono rom io? Non lo so…». Jonica sa solo che vuole tornare a Milano, «pure a mendicare, anche se è brutto». Perché «qua… qua…», si guarda intorno e non trova parole per dire che lì non c’è nulla. Vorrebbe mostrare la sua casa, offrire un po’ di caffè riscaldato sulla brace, ma non fa in tempo. Arriva il sindaco di Bals. Protesta con gli italiani, il “primar”. Non vuole che si riprenda o si fotografi strada Petre Pandrea. Segue una lunga mediazione in Comune. La delegazione della Casa della carità propone, come ha fatto nella vicina Tântâreni, di aiutare piccole imprese disposte ad assumere i rom. Il sindaco Theodorescu tentenna: «Qui non ci sono rom, ma cittadini romeni ». È un ritornello, questo, in Romania, dopo l’ingresso nell’Unione europea. Si usano espressioni come “rudai”, quelli che lavorano la legna, o “mugurel”, artigiani, per indicare i rom che fanno i piccoli lavoretti senÈ za tanto mercato. Ma poco dopo il sindaco aggiunge caustico che «quella gente la troverete lì anche fra vent’anni, anche se la Romania è in trasformazione: perché è la loro mentalità vivere così». E ammette che ci sono luoghi a sé, come strada Popa Sapca. «Stiamo usando i fondi europei. Stiamo facendo per loro la strada e la fognatura» sostiene il primar. «Loro» sono i rom. Strada Popa Sapca è una serpentina sterrata. Da qui arrivano molti rom di Triboniano, il campo più grande di Milano. Esmeralda, sette anni e un sorriso vispo, racconta in perfetto italiano di aver frequentato la scuola elementare di via Console Marcello. Ricorda i nomi dei compagni di classe. Spesso i bambini come lei non finiscono la scuola in Italia. I genitori li riportano nei villaggi perché non riescono ad occuparsi di loro, li affidano ai nonni. E infatti anche qui ci sono solo vecchi e bambini. A Sàlcuta, un pugno di baracche lontane 15 chilometri di sterrato dal primo centro abitato, i bambini sono divenatati ragazzi pronti a partire, in autobus. O in auto, guidando per ventitré ore fino ai campi della periferia di Milano. Non li aspetta un lavoro. «Si guadagna in metropolitana», strizza l’occhio uno di loro ai “gagè” italiani, facendo il gesto del borseggio. Il lavoro in Italia se c’è, è spesso in nero, spiegano i responsabili della Casa della carità, che tuttavia sono riusciti per alcuni a trovare un impiego regolare. E perfino appartamenti in affitto o comprati con il mutuo. Ma la strada verso l’integrazione è lunga e in salita. Rimangono le sacche di emigrazione, specialmente a Nord, come in Transilvania e Moldavia, dove ci sono i villaggi più poveri. Lassù non ci sono le villette che stanno sorgendo perfino a Sàlcuta: case a più piani al posto delle vecchie baracche, costruite un pezzo alla volta a ogni rientro dall’Italia. Alcune davanti hanno scalinate, giardini e macchine di grossa cilindrata. Stridono con la povertà delle altre. Con i bagni all’aperto e le bombole del gas portate a spalla, camminando per chilometri.