25 novembre. "Io, donna afghana: dalle prigioni dei taleban alla lotta per la libertà"
Un ritratto di Nesa Mohammadi
25 novembre, Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza sulle donne: in tutto il mondo i diritti delle donne sono oppressi o negati. Tra i Paesi in cui questo avviene in misura più massiccia e capillare c'è l'Afghanistan, tanto che è stato coniata la definizione di apartheid di genere. Qui di seguito la testimonianza di Nesa Mohammadi, ostetrica fuggita da Kabul dopo mesi di sistematiche minacce alla sua incolumità. In Italia Nesa è seguita da Consiglio italiano rifugiati (Cir) e Nove Caring Humans, ente del terzo settore con una lunga storia di cooperazione internazionale in Afghanistan e di advocacy in Italia. Oggi ha 40 anni, la sua laurea magistrale e i suoi 11 anni di esperienza come ostetrica professionale e formatrice universitaria in Afghanistan li sta mettendo a frutto in Italia con varie attività di volontariato per le afghane della diaspora, ma purtroppo ancora non adeguatamente nel mondo del lavoro, nonostante il riconoscimento dei suoi titoli. Attualmente lavora facendo le pulizie in una scuola.
"Sono Nesa Mohammadi, vengo dall'Afghanistan e sono un'ostetrica. Ricordo quando, esattamente il 15 agosto 2021, i talebani entrarono nella città di Kabul. Era il periodo del Covid-19, e mia madre, che vive in Iran, era stata contagiata. Qualche settimana prima avevo ottenuto il visto per andare in Iran e avevo preso un biglietto proprio per il 15 agosto.
Il volo per l'Iran era alle 11, io e mio marito siamo partiti per l'aeroporto di Kabul alle 7. Lungo la strada abbiamo notato molto caos. C'era traffico ovunque ed era impossibile raggiungere l'aeroporto. Mio marito ha deciso di passare per i vicoli. Nelle strade dietro l'Università di Medicina ci siamo imbattuti in carri armati pieni di talebani armati. Vedendo questa scena, mio marito si è subito spaventato perché era un impiegato della sicurezza nazionale dell’Afghanistan e aveva lavorato con le forze straniere nel paese. Io avevo paura di cosa sarebbe successo se ci avessero fermati e identificati. Alla fine siamo arrivati e, con nostra incredulità, abbiamo visto molte persone che vagavano per l’aeroporto, e tutti i voli erano stati cancellati.
Quindi siamo dovuti tornare a casa tra mille difficoltà. Non siamo usciti di casa per quasi una settimana. Dato che ero anche membro della Rete di Partecipazione Politica delle Donne Afghane, era stato deciso che noi membri del consiglio avremmo continuato i nostri incontri e negoziato con i talebani.
Abbiamo pubblicato diverse dichiarazioni nel gruppo WhatsApp della rete, ad esempio che le donne non dovevano avere paura, sarebbero dovute andare al lavoro indossando abiti colorati e truccandosi come al solito, frequentare la scuola e uscire di casa per fare acquisti. Partecipare ai programmi televisivi e parlare dei problemi del giorno. Tutti i medici, infermieri e ostetriche dovevano riprendere a lavorare. Per questo motivo abbiamo deciso di dare l'esempio, pubblicando foto e video di noi stessi, affinché le donne non avessero paura.
Fino all'inizio di settembre ho continuato ad andare nella mia clinica nelle modalità che avevamo concordato. Un giorno, mentre lavoravo, un gruppo di talebani è entrato nella clinica chiedendo di me alla mia segretaria. Mi sono fatta avanti. Sfortunatamente, il loro capo palava in pashtun, e non capivo cosa dicesse. Aveva un tono molto minaccioso. Poco dopo è andato via.
Ho chiamato subito mio marito e l'ho informato. Come al solito, mi ha detto di non avere paura e, se fossero tornati, di avvisarlo subito. Oltre a essere un militare, mio marito era anche uno studente dell'ultimo anno di odontoiatria, e ogni giorno uscivamo insieme perché lui studiava presso la clinica odontoiatrica accanto al mio centro di lavoro.
Dopo quasi una settimana, tre uomini armati talebani sono entrati di nuovo nella clinica, accompagnati da una persona che parlava dari. Appena arrivati, hanno strappato tutti i poster e le immagini di donne incinte. Hanno lanciato all’aria tavoli e sedie e hanno puntato le pistole contro la mia segretaria, urlando: “Non abbiamo detto che questo posto è chiuso fino a nuovo avviso? Perché stai ancora lavorando?”. Le donne incinte presenti nella clinica piangevano per la paura. Hanno colpito una delle donne più truccate con il calcio di una pistola, e poi si sono rivolti a mio marito, dicendo che sapevano che sua moglie faceva cose contro la Sharia islamica. Lo hanno accusato di sostenere le donne nella scelta di metodi contraccettivi. Hanno anche detto di aver visto i miei programmi in TV di educazione sanitaria.
Poi ci hanno portati nell’area di sicurezza dove hanno picchiato mio marito con violenza. Siamo stati detenuti per quasi tre giorni. I miei colleghi dell'università sono corsi al mio posto di lavoro dando come garanzia l’atto di proprietà della mia casa per farci liberare. Ho fatto di tutto, ho partecipato a tutte le manifestazioni contro i talebani a Kabul. Ho dovuto indossare un burqa per tre mesi e vedere la bellezza del mondo in modo diverso, attraverso di esso. Onestamente, nel momento in cui sono stata costretta a indossare il burqa per fuggire, mi sono sentita come rinchiusa in una gabbia.
Faticavo a respirare, il mondo era diventato nero. Avevo incubi nel sonno e per giorni ho camminato lungo i sentieri con le lacrime che scendevano dietro la rete del burqa. Sentivo che la mia autostima era stata calpestata. Mi sentivo alienata dalla gentilezza e dalla felicità.
Alla fine, i talebani ci hanno dato solo due opzioni: morire o fuggire da quell’oscurità. Non dimenticherò mai quei momenti: ogni volta che ci ripenso, il mio corpo trema di paura.
Ho perso tutto ciò che avevo e tutto ciò che avevo vissuto in passato. Ma non voglio perdere nemmeno un briciolo di speranza in questa lotta decisiva contro i talebani. Voglio lottare per me stessa e per tutte le ragazze e le donne della mia terra".