75 anni di Repubblica. 2 giugno 1946, il voto delle donne che cambiò la storia
La fila lunghissima. La ragazza davanti piena di paura: «E se sbaglio?». L’immagine riaffiora davanti agli occhi di Maria Lisa (Marisa) Cinciari Rodano come se l’avesse vista ieri. Mattina del 2 giugno 1946, Roma, la prima volta al voto delle donne: «Il cuore mi scoppiava nel petto. Per arrivare a quel giorno avevamo tanto lottato e tanto sofferto». A cent’anni – compiuti a gennaio – la vita si mostra per quello che è stata davvero: «E quel 2 giugno ho provato l’emozione più grande. Capivamo che c’era un ruolo, per noi. Che era sacrosanto pretenderlo e agirlo».
Maria Lisa (Marisa) Cinciari Rodano, 100 anni: deputata e senatrice del Pci, prima donna vicepresidente della Camera, con l'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 20 aprile 2012 - UFFICIO STAMPA PRESIDENZA REPUBBLICA/PAOLO GIANDOTTI
Marisa, a dire il vero, quel ruolo se l’era preso da ragazza in via del Seminario, al circolo La Scaletta: «Ci incontravamo per parlare. Del fascismo, della libertà ,di quel che potevamo fare per cambiare il Paese». Di lì l’adesione completa alla Resistenza, l’impegno in università, l’arresto e la detenzione. Non l’ha fermata niente: tra le fondatrici dell’Unione donne italiane, di cui è stata poi presidente, da votante è presto diventata votata, parlamentare del Partito Comunista dal 1948 fino al 1968, prima donna vicepresidente della Camera, europarlamentare. La prova che le donne possono contare, senza quote rosa. Oggi ancora non vuol fermarsi: «Mi irrita vedere i diritti delle donne calpestati. Mi rattrista pensare che le giovani pensino che i diritti che hanno ci siano stati sempre – spiega –. Ho un appello da fare per questo 2 giugno, ed è proprio a loro, le più giovani: impegnatevi in politica, scendete in campo, non solo per il vostro interesse personale (oggi vedo troppo individualismo in politica), ma per quello di tutti, per lo sviluppo democratico del nostro Paese e dell’Europa».
Iole Mancini, 101 anni, simbolo della Resistenza: arrestata e torturata dalla Gestapo, votò il 2 giugno - Archivio Anpi
In un’altra casa di Roma anche Iole Mancini, che di anni ne ha compiuti 101, ricorda il 2 giugno con commozione: «È una gioia immensa e insieme una ferita aperta – racconta un’altra campionessa della Resistenza –. Perché per quel 2 giugno ho visto morire tante persone. Mio marito arrestato, io prigioniera e torturata dai nazisti, il camion guasto che mi ha salvato la vita: io fui rimessa in cella, gli altri che invece partirono quel giorno furono ammazzati alla Storta». Eppure «cosa poteva chiedere di più una donna? Mi presentai a votare con il cuore in gola, una sensazione che ricorderò finché vivo». Più forte di tutto, persino della chiamata di Mattarella martedì scorso: «Mi ha nominato grande ufficiale della Repubblica. Ecco io sono qui a testimoniare, con la mia storia, che la vita continua nonostante tutto e che i giovani devono trovare la forza di cambiare la storia».
Come si spiegano, la democrazia e la Repubblica per cui si votò quel 2 giugno. «Mamma lo faceva in tre parole» spiega Katia Graziosi, presidente dell’Udi di Bologna. A fondare la sezione locale è stata proprio sua madre Anna Zucchini, operaia alla Ducati, prima donna a organizzare uno sciopero in fabbrica (e per questo poi licenziata). «S’inventò le riunioni di caseggiato: andavano, le donne più giovani, a spiegare nei cortili alle altre perché dovevano votare. Spesso si affacciavano soltanto gli uomini: "Dove sono le donne?", e quelli "Mica devono ascoltare!". "E invece sì", ripeteva sempre mia madre, "se siete 2 uomini e 4 donne restano nel retro, significa che la vostra famiglia potrebbe contare 6 e invece vale solo 2. Se invece siete 6 e votate in 6, la vostra famiglia conta 6". Quel calcolo lo capivano subito, o quasi. E le donne allora venivano fuori». Arrestata l'8 marzo del 1955 perché sorpresa a distribuire volantini e mimose, Anna a sua figlia ha lasciato lettere e scritti: «Quando la misero in carcere andavo a trovarla. Ero bambina e capivo solo il suo coraggio». Sono gli stessi ricordi di Paola Spano, Francesco Bei, di Rosa Russo Jervolino: figli e nipoti di alcune tra le 21 “madri costituenti”, le donne che quel 2 giugno per la prima volta furono anche elette. Conquistando il diritto a cambiare la realtà per tutte le altre.
Lo fecero scrivendo la Costituzione: «Mamma – racconta proprio Jervolino, figlia di Maria De Unterrichter, presidente nazionale della Fuci prima di approdare alla Democrazia Cristiana e all’Assemblea costituente proprio nel ’46 – voleva portarci alla Camera il giorno che l’approvarono. Era il 22 dicembre del 1947. Non ci fecero entrare, io avevo 11 anni e mio fratello 7. Ci lasciò allora davanti al Parlamento e ci prese un gelato. "Quando suona la campana" disse, "alzatevi in piedi: la Carta sarà stata votata"». Lo fecero occupandosi di famiglia e di natalità: «Mia madre ripeteva spesso – ricorda Paola, figlia di Nadia Gallico Spano, anche lei eletta alla Costituente – che era una fortuna avessero messo le donne a lavorare su quei temi, di cui gli uomini si sarebbero occupati senz’altro peggio». Lo fecero tutelando la lavoratrici, come nel caso della sindacalista Adele Bei: «Una vita dedicata alla difesa delle “sue” tabacchine, come le chiamava – spiega il nipote Francesco –. Di quel 2 giugno 1946 zia malsopportava la paura. La paura che tutti, anche all’interno del Partito comunista, avevano del voto delle donne».
E lo fecero ricordando al Paese che senza l’azione delle donne la democrazia non sarebbe mai stata davvero realizzata: «Il messaggio di Pio XII da questo punto di vista fu dirompente – ricorda la presidente del Centro italiano femminile (Cif), Renata Natili Micheli, rievocando la figura di Maria Federici –. Quel tua res agitur sancì una rivoluzione anche per il mondo cattolico: essere credenti per le donne doveva significare essere cittadine, tradurre nella fattualità e nella partecipazione cosciente i valori cristiani. Così fu, quei valori animarono la Costituzione».