Agorà

L'intervista. Zugarelli: «Io, l’ultimo della racchetta»

Daniele Azzolini sabato 29 marzo 2014
Il circolo Parioli, nella Roma che un tempo si definiva olimpica, non esiste più, e a vedere quel che resta, coi tre campi sdraiati sotto le tribune dello stadio Flaminio, ti si stringe il cuore. Lì c’era la fontana, quando i grandi australiani del tennis gironzolavano da queste parti e facevano conquiste. E lì il signor Barbato, gran pittore e padre del giornalista tivvù, dipinse un murales che era uno spettacolo. Sparito anche quello. Roba da Mali Culturali, altro che Beni, dice Panatta quando ci passa. Nemmeno il tennis di Zuga, esiste più. Ma non c’è cordoglio, nel parlare del caro estinto. E nemmeno rimpianto per i bei tempi andati. «Lo sport mi ha aiutato a scappare», racconta Antonio Zugarelli, Tonino, “Zuga”, penultimo finalista italiano agli Internazionali di tennis, 37 anni fa. Il ragazzo che somigliava all’attore Burt Reynolds e che sconfisse gli inglesi a Wimbledon nell’anno della Davis. «Sì, scappare… Dalla vita violenta che mi circondava, e che prima o poi avrebbe finito per tirarmi giù. Lo sport mi ha salvato. Prima il calcio, poi il tennis...». È l’inizio di un romanzo, fitto di ricordi e di immagini forti. La sua autobiografia, Zuga, il riscatto di un ultimo scritto con Lia Del Fabro (Edizioni Ultra, 16,50 euro, 192 pagine e 50 foto inedite) che sarà a breve in libreria. Curioso sentirsi un ultimo, per uno che ha fatto la storia del tennis italiano. «Sono nato povero, la mia casa, dall’altra parte del Tevere, la tirò su mio padre. Il tetto era di lamiera, ma se mi credete, era dignitosa. Sono cresciuto lì, in un villaggietto che ricordava quello del film di Scola, "Brutti sporchi e cattivi". Ecco, la nostra vita, fu proprio quella di non sentirsi mai né brutti, né sporchi né cattivi. Ma non era facile...».E basta questo per sentirsi un ultimo?«No, ma la battaglia quotidiana era con i molti che mi consideravano tale, e mi trattavano senza rispetto, a prescindere. A scuola avevo compagni di classe che son finiti male, molti di loro a Regina Coeli, il carcere. Io navigavo contro corrente, ma era necessario portare a casa qualche lira, tutti i giorni. Trovai lo sport e lo sport mi ha dato una mano. Ero un ottimo calciatore, al tennis facevo da raccattapalle per una mancia da 50 lire. Il calcio sparì di colpo, quando feci un provino per la Roma. Mi dettero un minuto solo, e io in quel minuto feci una grande sgroppata sulla fascia e misi un cross preciso in area. C’era Oronzo Pugliese e mi prese sotto braccio, vedendomi deluso per quel minuto appena che mi avevano concesso. Del resto, gli altri erano arrivati in pullman con le maglie delle loro squadre. Io a piedi, e sembravo un gatto arruffato. Dopo un mese seppi che mi aveva preso l’Almas, ma nessuno mi spiegò che in realtà era la Roma che mi prestava per farmi crescere. Lo presi come un rifiuto, e mi tenni strette le 50 lire da raccattapalle».Alla fine il tennis qualcosa le ha dato…«La mia fortuna fu un torneo, proprio qui, in questo circolo. Lo vinsi, ed era la prima volta che giocavo con un punteggio. Di lì a poco mi dettero l’opportunità di diventare un giocatore, un lavoro e qualche soldo da portare ai miei. Esisteva ancora la divisione fra dilettanti e professionisti, e fare da palleggiatore significava essere espulso dalle competizioni. Trovai delle persone che capirono, quello fu il primo riscatto. Finalmente qualcuno che credeva in me».Poi Formia, Belardinelli, il nucleo della Davis che comincia a formarsi, qui la storia va di pari passo con quella di Panatta, Barazzutti e Bertolucci...«Furono anni di crescita, di grandi insegnamenti. È vero, Belardinelli era un padre, per tutti, senza distinzioni. Avevo grandi doti fisiche e le mettevo in campo. Chissà, sul rovescio, che era il mio colpo, mi ha aiutato anche non avere mezzo pollice, che mi ero tagliato da piccolo, lavorando. Stringevo la racchetta in modo diverso dagli altri, e mi veniva naturale colpire la palla con un taglio che la faceva rimbalzare pochissimo. Nel 1976 scoprimmo che tutti ci conoscevano, e nelle case degli italiani cominciarono a spuntare le prime racchette. Un periodo irripetibile, una fortuna averlo vissuto in prima persona, ma per le sensazioni che si provava, non per i guadagni. Per quelli, oggi è tutta un’altra cosa...».Una finale a Roma non le bastò per diventare ricco, insomma…«Vinsi dieci milioni di lire. Cinque, sei mila euro di oggi. Alla fine della mia carriera avevo i soldi per acquistare un appartamento, con il mutuo. Credetemi, ero felice. Ma i soldi, quelli veri, non facevano parte di quegli anni. Quando andavo a Parigi evitavo di iscrivermi al doppio, perché se avessi perso subito in singolare sarei stato costretto a rimanere chissà quanti altri giorni, e a spendere cifre che non potevo permettermi».Lei ebbe difficoltà con Pietrangeli. Perché?«Perché tendeva a trattarmi come l’ultimo dei quattro. Come vedete, il punto è sempre quello. Io glielo dicevo… Nicola, dovresti saperlo, nel tennis non ci sono riserve. Quando ho giocato e vinto a Wimbledon, avresti detto che Barazzutti era la mia riserva? No, e allora?». La Davis di oggi, i ragazzi che affronteranno la Gran Bretagna a Napoli la prossima settimana, è così lontana dalla vostra?«No, per niente. C’è un numero uno che sta crescendo, Fognini, e un secondo singolarista di ottima tenuta, Seppi. Anche un discreto doppio. Credo siano favoriti contro Murray, sulla terra rossa. La squadra di Davis è una costruzione a suo modo virtuosa, deve avere i ruoli coperti dalle persone giuste. Dopo tanti anni, mi sembra che l’Italia ora viva questa condizione». E ora un libro, per una vita che è stata un po’ come un romanzo. Che cosa l’ha spinta a scriverlo?«Un caso… Ma nel farlo mi sono convinto che potrebbe essere utile. In fondo, dico ai ragazzi che si vive per crescere, ponendosi obiettivi, rispettando se stessi e gli altri. E chiedendo in cambio di essere rispettati».