Musica. Zucchero, la spiritualità dell'eterno bluesman
Il cantautore reggiano Zucchero, 64 anni, alla presentazione del nuovo album “D.O.C.” / Robert Ascroft
Zucchero a denominazione di origine controllata. D.O.C., appunto: il titolo del nuovo album oggi in uscita mondiale. Prodotto tra la Lunigiana e gli Stati Uniti (Los Angeles e San Francisco), in quella ideale terra di mezzo del cuore che per Fornaciari è la Lunisiana Soul, il suo buen retirodi Pontremoli dove tra cavalli, cani, oche, granai, vino e olio prodotti dai suoi contadini rivive le antiche radici familiari e quel piccolo mondo antico intriso di irrinunciabili valori e atmosfere. Un benefico lusso esistenziale che in pochi possono concedersi, ma che ben si confà alla matrice orgogliosamente rurale del bluesman padano di quella Roncocesi (duemila anime a sette chilometri da Reggio Emilia) per la prima volta nominata in una sua canzone. L’autobiografica Testa o croce, una delle struggenti e intense ballad di questo splendido album (tre anni dopo Black cat) costituito di undici brani con tre bonus track. Tante le collaborazioni. Da Pasquale Panella e Daniel Vuletic (per la ballad La canzone che se ne va) a Steve Robson e Martin Brammer (per Freedom), da Eg White e Mo Jamil Adeniran ( Vittime del cool) alla svedese Frida Sundemo che ha anche cantato con Zucchero sulle note di Don’t Let It Be Gone.
Zucchero, un album omogeneo e molto blues. Una denominazione d’origine più che controllata.
Sì, c’è un filo conduttore nel suono e nei testi di questo disco. Musicalmente ho cercato di non ripetermi e di diversificare, perché prima di sorprendere il mio pubblico io voglio sorprendere me. La cosa più difficile dopo 14 album era rinnovarmi pur restando me stesso. E ho deciso di partire dal suono, con tanti musicisti e strumenti, il coro gospel, diversi batteristi, la sezione fiati di Quincy Jones. Volevo anche suoni elettronici, con i synth e mi sono affidato a quattro giovani produttori. Si sono chiusi in uno stanzino con le basi dei pezzi e hanno prodotto quei suoni caldi che volevo e che, in piccole dosi, caratterizzano un po’ tutto l’album.
E nel testo della bellissima Tempo al tempoha voluto ancora De Gregori, come trent’anni fa per Diamante.
Sì, quella con De Gregori è una collaborazione già sperimentata negli anni e a Davide Van De Sfroos per Testa o croce mi ci ha fatto pensare proprio Francesco. Poi ho coivolto artisti che ultimamente mi hanno dato speranza: tra questi, quando ho sentito Human di Rag’n’Bone Man, ho pensato che avrei voluta cantarla io. Il suo contributo c’è in Freedom, il primo singolo, scritto a quattro mani con lui.
Testi che stavolta lasciano poco spazio a doppi sensi e ammicamenti.
A 64 anni non me la sento più di giocare troppo con la goliardia da bar come in molti brani del passato. Solo nei pezzi veloci, come Vittime del cool, Soul mama e Badaboom (Bel Paese), me la sono un po’ concessa. In Spirito nel buio, che apre l’album, si percepisce addirittura un inizio di redenzione. Del resto questi tempi sono davvero bui e incattiviti. Viviamo in una pentola in ebollizione che speriamo non scoppi. Anch’io sono preoccupato come lo sono in tanti. Per fortuna al momento non abbiamo politici con un grande carisma, perché se ne arrivasse uno... Per la verità all’inizio il titolo del disco doveva essere Suspicious times (frase contenuta nel brano Nella tempesta, ndr), per rispecchiare appunto questi tempi sospesi o sospettosi. Poi, parlando con i contadini della mia fattoria, ho pensato a qualcosa che rappresentasse il mio modo di fare le cose in modo genuino ed è uscito D.O.C.
Ma cos’è che la preoccupa e insospettisce di più in questi sospettosi tempi?
Vivere immersi nell’apparenza, il bisogno di sentirsi tutti vip. Siamo appunto vittime del cool. Sono soprattutto i social a spingere in questa direzione. Ma sotto sotto c’è una paura, c’è una fuga anzitutto da se stessi. Come quando chiedi a qualcuno come va e ti dice tutto ok, perfetto, in gran forma. E poi scopri che sta vivendo in un mare di guai. Perché invece non recuperiamo quella sana sincerità e l’autenticità dei rapporti? I social sono l’emblema di tutto questo mascheramento. E anche tutti i disastri e i conflitti in giro per il mondo alla fine, per induzione, non ci sembrano davvero tali. Tutto virtuale.
Tranne la guerra a pezzi, come avverte papa Francesco.
Le guerre sono purtroppo vere. E sono tante. Io sono ateo, ma papa Francesco mi piace. Lo sento genuino, uno del popolo, dà volto e voce agli emarginati e alla sofferenza. Mi piace ascoltarlo, dice pane al pane e vino al vino senza troppi fronzoli. Vedo le battaglie che sta facendo, nonostante sia frenato e osteggiato. Mi piacerebbe veramente potergli parlare, ma non l’ho ancora chiesto.
Un ateismo doc, si direbbe. Ereditato in famiglia e nella rossa Emilia?
Sì, ma io sono in ricerca. E in questo disco si sente. Alterno il profano dei pezzi veloci con il sacro delle canzoni più intime. Tanto che ero quasi geloso dell’uscita dell’album perché parlo di cose molto personali. Mi sono reso conto che in ogni canzone c’è una luce, uno spirito, una scia che mi guida. E in Nella tempestacanto: “E l’amore che ci resta quaggiù, come una spia nella tempesta”. Quando scrivevo ho pensato spesso a mio padre che da ateo e comunista mangiapreti quando il sacerdote veniva per benedire la casa lui diceva a mia madre di non farlo entrare. Ho visto però che la malattia degenerativa di cui ha sofferto per otto anni lo ha scavato in profondità. Un giorno vidi entrare il prete per la prima volta a casa sua e quando il sacerdote fece per benedirlo, lui che non aveva nemmeno la forza di alzarsi dette fondo a ogni energia e si alzò. E con gli occhi lucidi si fece il segno della croce. Questa cosa mi ha toccato profondamente e anche quell’immagine ha fatto luce in questo mio disco.
Le radici, il ritorno e la casa sembrano il vero leitmotiv di un disco che nel 2020 farà addirittura il giro del mondo, oltre che occupare per dodici sere l’Arena di Verona tra settembre e ottobre.
Il motivo per cui io e la mia compagna abbiamo deciso di trasferirci in un ex mulino della Lunigiana è proprio quello di far crescere nostro figlio con le mie stesse radici contadine. Dargli questo mondo ormai lontano è forse il mio più grande atto d’amore. Vedo che adesso che ha vent’anni e studia giurisprudenza a Roma, alla Luiss, non vede l’ora di tornare a casa: solo ora comincia a capirne il valore.
Eppure per uno che è spesso in tour in giro per il mondo e ha fatto anche delle collaborazioni internazionali la propria cifra stilistica la casa dovrebbe essere un po’ ovunque.
Non per me. In Testa o croce parlo dello sradicamento. Un sentimento che io provai quando da ragazzo ci trasferimmo a Forte dei Marmi. Per me fu un trauma. Da quel momento in nessun posto ho mai più avuto la sensazione di sentirmi a casa. Con lo spirito io sono sempre lì a Roncocesi. In Tempo al tempo termino la canzone con una frase in dialetto reggiano, come trent’anni fa in Diamante con mia nonna che grida: Delmo, Delmo, vin’ a ca’. Il dialetto è la lingua dell’anima e della mia infanzia. Un altro valore che si sta perdendo con la scomparsa della civiltà contadina. Al suo posto ora abbiamo i social e l’apparenza al posto dell’autenticità.
Perché ce l’ha tanto con i social?
Perché hanno portato grande solitudine, non c’è più il contatto umano personale e diretto. È in gioco la relazione. Fa credere di rendere liberi quando invece condiziona sempre più i ragazzi. Non è certo la libertà di cui canto in Freedom. Nel video c’è un cavallo, che rievoca il cartoon Spirit in cui cantavo io, che cercano di domare anche con le cattive. Ma c’è la purezza di una ragazzina che capisce meglio di tutti che non si può recintare uno spirito libero. E così lo aiuta a scappare finché non si riunisce al suo branco per essere veramente libero.
Una ragazzina come Greta...
Sì, può far pensare a lei. Io sono molto contento che Greta abbia generato questo effetto domino per cui i ragazzi finalmente tornano in piazza per qualcosa di importante per il loro futuro. Questi nostri ragazzi mi fanno molta tenerezza perché li vedo fragili. E lo dico perché anch’io ho un figlio di vent’anni. Non hanno ideali, non hanno progetti da inseguire, non hanno hobby, sono in generali tutti un po’ persi. Forse hanno troppo benessere o forse gli abbiamo tolto i sogni. E anche le canzoni.
Come canta ne La canzone che se ne va...
È un inno alla canzone, che non ha padroni, fa soffrire, ritorna e si eleva dentro di te. La forza di una canzone è che ognuno ne fa quello che vuole. L’autore non ne è più il padrone, la canzone è libera. Può essere anche un mare in tempesta, ma alla fine la canzone fa luce e qualche volta dà persino speranza. Oggi però stiamo perdendo anche questo ultimo faro. Io ancora adesso quando sono un po’ giù di corda e malinconico riascolto le canzoni che mi hanno formato: mi ridanno gioia e serenità. È anche questo un ritorno a casa, la mia casa interiore. I ragazzi ora hanno soprattutto il rap e la trap. Ma sono talmente tante le parole che si confonde tutto e temo che alla fine non rimanga niente. Si consumano, come tutto in questi tempi schiavi della velocità.