1° racconto della serie /Calcio di poesia. Zeichen e Giordano, il poeta e il calciatore
Bruno Giordano, bomber della Lazio anni '70-'80
Primo racconto degli “11” della serie estiva. La storia di un ragazzino che sognava di essere il bomber della Lazio degli anni ‘70-’80, idolo assoluto anche del poeta fiumano che, giunto a Roma nel 1954, aveva abbracciato la “fede” per il club biancoceleste «I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara (giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra, allora, e i miei amici, qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo “Stukas”: ricordo dolce bieco) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita». Partendo da questo nostalgico amarcord del più grande “Poeta del gol”, Pier Paolo Pasolini (1922-1975), artefice e narratore del Calcio di poesia (titolo della nostra serie), abbiamo convocato una squadra di 11 scrittori, tutti amanti del calcio e che conoscono a fondo il valore, anche poetico, di quelle partite giocate in gioventù, in campi di periferia o di quella provincia senza fine che è poi questo nostro Paese. In 11 racconti, come una squadra che si rispetti, i nostri autori scriveranno di grandi e piccoli eroi esemplari del pallone. Un progetto letterario che guarda con amorevole rispetto a quel calcio di poesia che sopravviverà in eterno, almeno nelle nostre allenatissime memorie di cuoio. (R.S.)
«Noi come voi, aspettando che il sole smonti. Diciamo guarda che bei tramonti E tutte le sere…». Era sera quando mi risvegliai dall’anestesia, scampato al peggio dopo un’operazione alla testa effettuata da un fuoriclasse della neurochirurgia, il prof. Guidetti. Sorridevo contento, sotto il mio turbante di bende: la testa rotta, tagliata come dopo una zuccata tra Bruno-gol e il terzinaccio cattivo, come quello ascolano che gli spaccò il ginocchio. Deliravo sotto la morfina, ma ero tenero agli occhi di mia madre che, al bordo del letto piangeva di gioia. «Pericolo scampato », comunicava telefonicamente a parenti, amici e affini, dalla cabina a gettoni del Policlinico Umberto I. Mio padre sorrideva nervoso dopo cento sigarette accese e spente in una cupa sala d’attesa, finalmente mi accarezzava i piedi, gelati. Chiesi il walkman e la cassetta rimasta dalla sera prima, dentro c’era l’ultimo album di Lucio Dalla, 1983 e l’ultima canzone che stavo ascoltando prima di salire al patibolo, la sala operatoria. Noi come voi, un mantra imparato a memoria che mi aveva tenuto compagnia nei giorni dell’abbandono, prima del buio. «Mo’ sentirai un picco e poi te addormi» disse l’anestesista con tono paragnosta alla Giucas Casella. Ricordo che aveva tenuto a precisare che sapeva che ero della Lazio e che quando mi sarei risvegliato lui sarebbe stato all’Olimpico a festeggiare lo scudetto della sua Roma. Era di maggio, l’8, la Roma vinse il suo secondo scudetto, di fatto il primo, perché quello “regalato” da Mussolini non se lo ricordava nessuno, forse neanche i parenti del Duce. Un mese dopo, la mia Lazio tornò in Serie A dopo due anni di purgatorio: condannati per il primo scandalo del calcioscommesse, diciamo il secondo perchè se dico “caso Allemandi” rischiamo di tornare al buio di quella sera. Lazio in B, tradita dall’ingenua spacconaggine dei suoi due gioielli più preziosi, Bruno Giordano e Leonello Manfredonia. Ma con l’amnistia, dopo la vittoria dell’Italia al Mundial dell’82, erano liberi, anche di tornare in campo. E lì sul prato verde, con attenti a quei due, l’aquila riprese a volare. L’onnipresente Leonello e il mio campione del cuore, Bruno-gol, fecero diventare grande anche un onesto mister come Clagluna, più esperto d’arte che di promozioni. Avevo ricominciato a camminare nel corridoio della corsia assieme a un futuro angioletto, Andrea da Genova, il più piccolo di quelle camerate da Qualcuno volò sul nido del cuculo. Fuori sentivo l’aria friccicarella di una Roma impazzita di gioia, completamente nel pallone. «E quanno ce ricapita? Scudetto e ritorno in A», la sintesi registrata dal portantino, neutrale, per via delle origini ciociare che gli avevano fatto credere che Chinaglia un giorno sarebbe passato sul serio al Frosinone, anche se Rino Gaetano In mio fratello è figlio unico era stato categorico, «non può passare al Frosinone ». Mio padre adorava Rino Gaetano e Gianna era la sua canzone preferita. «Esprimi un desiderio», disse papà, juventino e sivoriano che delle romane se ne fregava, ma simpatizzava per la Lazio, la squadra del figlio unico di casa. «Vorrei la maglia n. “9” di Bruno Giordano! », risposi sfacciato senza pensarci poi tanto. Ero vivo per grazia ricevuta, come Nino Manfredi, e potevo permettermi di chiedere tutto, o quasi. Mio padre non se lo fece ripetere due volte. Prese la macchina e cominciò a girare per una Roma torrida e trafficata al limite del manicomio, ma scanzonato e leggero come un Gassman ne Il sorpasso si tuffò alla ricerca di quella maglia bellissima con l’aquila celeste stilizzata su fondo bianco. Furono giorni di inutile caccia al tesoro: non era mica come oggi che ad ogni angolo c’è uno store tarocco che la maglietta della squadra del cuore te la fabbrica seduta stante, te le personalizza con sulla schiena stampato il tuo nome, cognome e codice fiscale. Allora facevi fatica a trovare anche il chioschetto che vendeva le bandiere per la festa della promozione. Le bandiere, ancora si cucivano a casa. Due pezzi di stoffa, bianca e celeste, e giù a spingere di pedale sulla Singer, solida, antica, piazzata con il mobile annesso nella camera da letto dei nonni, per confezionarla bella e pronta per quel 12 giugno 1983: il giorno del ritorno in Serie A. Tenevo una bandierina in mano e la speranza di tornare allo stadio per vedere dal vivo il mio idolo, Bruno Giordano. Il suo modo di calciare, di colpire di testa, di correre (quasi tutto alla Crujff, anzi no, alla Giordano) dopo un gol sotto la Curva Nord per raccogliere l’abbraccio di tutti noi ragazzi di “borgata”. Questo pure, a Pa’, era calcio di poesia?
«Un remoto Lazio-Juventus; tre a zero, esplode l’anonimo urlo di trionfo, sì; ma chi ha recapitato al presente il nome di quel gladiatore: Bruno Giordano che si distinse durante i giochi per l’incoronazione dei titoli di Augusto; con qualche punteggio sconfisse le fiere zebrate, se l’ovazione riservatagli dalla folla superò i cento decibel, sopravanzando quella resa di consueto all’imperatore?». Questa invece è la poesia che gli dedicò Valentino Zeichen. Profugo istriano di Fiume che, nel 1954, arrivò a Roma assieme a suo padre «e da subito abbracciai i colori biancocelesti», sosteneva fiero e fuori verso. Nel ’74, l’anno del primo scudetto laziale, Zeichen fece il suo debutto nell’agone poetico pubblicando la raccolta Area di rigore. Ma lì dentro non si parla né di Lazio, né di calcio, né del giovane Bruno Giordano «il calciatore che ho amato di più» ha ripetuto fino all’ultimo il Poeta, che come Nel cielo è sempre più blu (dell’altrettanto poetico Rino Gaetano, brano assurto a inno laziale) faceva parte della tribù dei «chi vive in baracca». La casa di quest’uomo elegante, nobile pur nella sua apparente miseria, era una delle cinque abitazioni abusive di Borghetto Flaminio, a due passi da Piazza del Popolo dove ha visto nascere e morire l’ultima bohème romana, quella dei pittori (Angeli, Schifano, Festa, Pascale, Rotella...) dei cinematografari, Flaiano e Fellini, e quella dei poeti pasoliniani. Anche se con Pasolini condivideva solo la passione per il calcio, per il resto tranchant ammetteva: «Pasolini come poeta non mi interessa. Per me il più grande di tutti rimane Montale». Lì dentro a quel pensatoio dignitoso, anche se baraccato, tanti libri sparsi, ordinati solo nello scaffale dell’anima dove primeggiavano gli amati russi: Tolstoj, Dostoevskij, Cechov, Gogol… «Prima si aveva la fortuna di cominciare leggendo dei geni senza dover passare per la mediocrità », sentenziava il Poeta laziale e Neomarziale (titolo di una sua raccolta di poesie) che si nutriva di ossi di seppia nei giorni magri, aspettando l’invito graditissimo di quella nobiltà da Grande bellezza che se lo litigava per averlo a tavola, anche per commissionargli, secondo tradizione mecenate, qualche verso da usare alla bisogna come epitaffio, magari da scolpire sul marmo del mausoleo di famiglia in vista dell’ultimo viaggio nel mondo dei più. In quella casa del Poeta, pare ci fosse anche un calzino di un calciatore della Lazio appeso con un chiodo alla parete. Un cimelio, un feticcio, un totem che rimandava a quella folgorazione che nel ’74 raggiunse l’acme con lo scudetto della Lazio di Maestrelli e del suo figliol prodigo “Long John”, Giorgio Chinaglia. Il bomber che quando si ingobbiva nella corsa era il segnale dell’assalto e la Nord in estasi intonava l’inno da brividi che stordiva qualunque resistenza avversaria: «Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia!». Commosso ricordava il Poeta di quei giorni dell’apoteosi tricolore della Lazio nelle cui fila, l’anno dopo, a Marassi, fece il debuto il suo astro nascente, Bruno Giordano. Il 5 ottobre 1975 a Genova, contro la Samp, su assist di Chinaglia il giovane Bruno, subentrato dalla panchina, all’89 segnava il gol della vittoria. Era l’inizio dell’era Giordano e la fine di quella di Chinaglia che attratto dai dollari dei Cosmos di New York salutava quella Roma ruffiana che lo aveva amato, ma che non fece nulla per impedirgli di volare via, nella Grande Mela marcia. Bruno senza la spalla larga di Long John se la cavò lo stesso, crebbe in fretta e prese rapidamente il suo posto in squadra (la numero “9” era solo sua) e anche nel cuore della Nord che andava ad omaggiare, sotto la Curva, ad ogni gol. La stagione 1978-’79 fu quella in cui divenne il re dei bomber, 19 reti, capocannoniere della Serie A. Aveva 23 anni, Roma, anzi il mondo era ai suoi piedi. Io, come il poeta Zeichen, una volta uscito dall’ospedale e tornato a giocare nel campetto dietro casa giocavo immaginando di essere Bruno-gol. Sono diventato un giornalista e uno scrivano di memorie di cuoio e Giordano l’ho conosciuto e intervistato, e quando gli ho rivelato di quella passione giovanile lui mi ha confessato che adesso più che far gol gli piace leggere e scrivere libri (uno ne ha fatto con Giancarlo Governi). Allora, ho provato la stessa sensazione di Zeichen quando scrive: «Sono transitati secoli dentro i miei anni e (io) non vi ho fatto caso». Stanotte infine, ho fatto un sogno, era una domenica sera, le partite alla radio erano appena terminate e nella mia cameretta di figlio unico tiravo fuori un vinile da mettere sul piatto, era 1983. Mentre l’ascoltavo mi sono messo a guardare la copertina e ho cominciato a contare le stelle sopra alla banda musicale. Quelle più luminose erano almeno sei: la stella del piccolo Andrea, di mio padre Mario, quella di Chinaglia e Maestrelli che ora riposano assieme nella stessa tomba romana, quella del Poeta laziale e del Poeta Lucio Dalla… «Noi come voi, aspettando che il sole smonti. Diciamo guarda che bei tramonti. E tutte le sere…».