Valentino Zeichen abitava la sua baracca di legno come in una reggia. Riceveva gli amici, spesso poeti a loro volta, o scrittori, registi, comunque parte del mondo della cultura e del-l’arte, non solo di Roma. Cucinava volentieri per loro un’ottima pasta al pomodoro, semplice e saporita, come la sua accoglienza. D’inverno la sua vitalità vinceva il freddo più di quanto avrebbe potuto un efficiente sistema di riscaldamento che in realtà non c’era. Valentino si è spento ieri all’improvviso, dopo aver lottato e vinto contro l’ictus che lo aveva colpito la scorsa primavera e quando sembrava che il suo stato di salute si fosse stabilizzato, grazie alla sua forza e all’aiuto affettuoso dei molti amici, che avevano anche combattuto per l’assegnazione del vitalizio previsto dalla Legge Bacchelli. Ma, forse, la sua vita su questa terra non sarebbe più stata come avrebbe voluto, e com’era sempre stata: piena di movimento, di viaggi anche un po’ avventurosi, senza prenotazioni alberghiere e con mezzi di trasporto improvvisati, in condivisione della propria energia. E anche per questo, forse, il suo cuore ha ceduto. La sua vita era a Roma, per sua scelta: si era stabilito nella capitale nel 1950 con la famiglia, dopo che il destino e la storia avevano deciso per lui, nei primi anni. Era nato a Fiume, nel 1938, aveva condiviso la sorte degli sfollati costretti ad abbandonare la loro città, riparando per qualche tempo in un campo profughi a Trieste. Aveva vissuto senza radici, ma poi se le era fatte ricrescere, come una pianta forte, che non può essere costretta in un vaso da giardino. Di questa sua origine, senza patria e senza casa, aveva fatto la sua forza e il suo orgoglio, non la- sciandosi neanche sfiorare dai condizionamenti di una società che tende a imporre il bisogno di un’illusoria sicurezza, pagata a caro prezzo. Preferiva pagare per la libertà e la coerenza, in un misto di ascetismo e dignità, con qualche concessione all’eleganza, specie per le scarpe. Il suo sorriso sereno e ironico lo dimostrava: era felice di potersi esprimere libero da etichette letterarie, senza inibizioni e ipocrisia, sviluppando una voce poetica inconfondibile. Era un poeta tra i più significativi in Italia, ormai da tempo. Due anni fa da Mondadori aveva pubblicato tutte le sue poesie, dal 1963 al 2014. In questo libro prende forma un suo ritratto di poeta, un sommario delle svolte della sua poesia, che si era imposta all’attenzione di lettori e critica nei primi anni Settanta. Cosa che non era sfuggita ad Antonio Porta, sempre attento al lavoro poetico altrui e in cerca di talenti da far conoscere. Nella sua antologia
Poesia degli anni Settanta (1979), ormai diventata un libro di culto, lo definiva «tipico flaneur romano, collagista e cinephile». E pubblicava una scelta piuttosto ampia dal suo libro d’esordio,
Area di rigore, (1974), dal titolo chiaramente ispirato alle azioni in campo del calcio, lo sport che probabilmente amava di più, da tifoso appassionato della Lazio. Un testo già maturo, già nettamente improntato a una poesia anti lirica che sarebbe stata la sua fisionomia costante: diretta, eppure aggraziata dal punto di vista dell’impianto metrico; piena di sapienza stilistica, ma al tempo stesso con una non comune capacità di narrare. Quello che, sempre Antonio Porta, salutando con entusiasmo questo esordio di successo, chiamava «un meccanismo eccellente di narrativa poetica». Da questo ottimo punto di partenza Zeichen aveva continuato a comporre versi negli anni successivi, osservando l’umanità nelle sue coazioni a ripetere, nelle ritualità sociali buffe e sussiegose, non lasciandosi sfuggire la miseria di fondo ma senza condannarla, e soprattutto senza lasciarsi contagiare dalla disperazione nata dallo svuotamento di senso, che un certo modo di vivere può provocare. Aveva saputo coltivare un’altra sua vena importante: la capacità di osservare in profondità, scoprendo la bellezza nascosta nei paesaggi di pietra della sua amata Roma, in questo capitale emblematica del mondo. Attraverso la lettura attenta, quasi accanita, dei particolari riusciva a dipingere un affresco d’insieme vivo, già con Museo interiore (1987), poi in
Metafisica tascabile (1997), dai titoli rivelatori di una consapevole pulsione a trasformare il mondo in un museo. E poi ancora nella memorabile sequenza di poesie intitolata
Angeli, inclusa nella raccolta
Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio (2010). Nella sua immaginazione poetica, ogni scena di vita tendeva a diventare il “quadro vivente' di un grande carnevale, a volte triste. Di riflesso, il suo talento e la sua carica emotiva di lettore conquistavano il pubblico durante i reading, ai premi letterari. Negli ultimi tempi, da perenne sperimentatore, aveva impresso una nuova svolta alla sua scrittura, esordendo in narrativa con il romanzo
La Sumera (Fazi). Qui era come tornato alla sua giovinezza, raccontando le vite intrecciate di tre giovani romani, un po’
vitelloni alla Fellini e un po’
indifferenti alla Moravia, intenti a inseguire senza eccessivi sforzi i loro sogni in una Roma altrettanto pigra e tendente all’inerzia. Innamorati della vita in sé, senza precisi obiettivi, i tre protagonisti potrebbero diventare l’emblema della contemporaneità, ferita ma inconsapevole della propria vulnerabilità fatale. In questo aspetto, si può leggere nel romanzo anche un ritorno alle origini, una chiusura del cerchio del suo percorso letterario, perché già fin dagli esordi poetici aveva riservato alle debolezze della contemporaneità italiana un’ironia mai tagliente, ma, per così dire, comprensiva. Proprio come lo sguardo sornione con cui osservava gli amici, magari divertendosi un po’ a mettere in rilievo i loro tic e le loro piccole contraddizioni, ma che non mancava mai di compassione e affetto.