Il vero colpo di teatro Franco Zeffirelli lo riserva per sé. Quando la musica si è spenta. Un fascio di luce illumina il fondo della platea. Ed eccolo il maestro 87enne, elegantissimo, seduto su una carrozzina, spinto dai suoi collaboratori più stretti, attraversare le poltroncine rosse. Sul palco i cantanti sfilano per gli applausi, ma la scena è tutta per lui che ha annunciato (ad
Avvenire) di chiudere con questo lavoro la sua carriera. Salutato dal pubblico che lo applaude, gli stringe la mano. Lo ringrazia. Qualcuno ha gli occhi ancora umidi. Non ha fatto in tempo ad asciugarli dopo aver visto morire Liù, la schiava che si uccide per amore. La vera protagonista, per il regista fiorentino, della
Turandot di Giacomo Puccini, l’opera che venerdì ha trionfalmente aperto la nuova stagione lirica dell’Arena di Verona.Un cartellone tutto dedicato a Zeffirelli: sino al 29 agosto in scena tutti gli spettacoli firmati dal 1995 ad oggi (anche un libro fotografico celebra il sodalizio) dal regista per l’anfiteatro:
Aida, Madama Butterfly, Carmen e
Trovatore. Varato, però, nel segno della protesta: prima di quelle di Puccini sono risuonate le note dell’
Inno di Mameli. Lo hanno cantato i lavoratori dell’Arena, i corsiti in abiti di scena e i tecnici in tuta e baschetto, per protestare contro la riforma delle fondazioni liriche approvata dal Senato. Lo hanno scandito a una sola voce, «No al decreto Bondi», per dire, con tanto di sottofondo delle vuvuzela sudafricane, che «la lirica è un grande patrimonio culturale e nazionale». E per auspicare una revisione del testo prima del passaggio alla Camera. Altrimenti sarà sciopero e salteranno
Aida del 25 e
Butterfly del 26 giugno.La crisi irrompe sul palco. E ci resta anche quando i lavoratori se ne vanno. Perché Zeffirelli pur con il suo inconfondibile stile faraonico – quando le mura che fanno da sipario si aprono sulla città imperiale è una pioggia di applausi e flash – racconta una favola che assomiglia molto alla nostra realtà. Porta in scena un popolo che striscia, che vive ai margini della società, che guarda da lontano la ricchezza del palazzo e che poi, finita la festa, torna alla quotidiana sopravvivenza. E tu pensi ai nuovi poveri, agli immigrati, a quelli che sognano davanti alla tv. E alla fine un po’ di amaro in bocca ti resta. Tanto più che Zeffirelli, con un colpo di genio, taglia abbondanti dieci minuti di musica (quelli scritti da Alfano per completare l’opera incompiuta di Puccini) e collega la morte di Liù con il finale, cancellando il bacio di Calaf che scioglie la principessa: Turandot conosce il dolore e solo allora può davvero amare suggerisce Zeffirelli. Messaggio sovversivo nella sua semplicità. Peccato, però, che gli interpreti da Maria Guleghina (Turandot) a Marco Berti (Calaf) a Tamar Iveri (Liù) al direttore Giuliano Carella si limitino ad una prova nel solco della tradizione senza credere fino in fondo alla forza rivoluzionaria della musica.