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CINEMA. Zanussi: ma il film può essere bello e non triviale?

Krzysztof Zanussi domenica 17 ottobre 2010
La a provenienza plebea del film è un fatto comunemente noto, e questa disciplina non differisce da ogni arte sorta dal primitivismo. Ogni disciplina ha passato la tappa della rozzezza. Nel caso del film, le date sono vergognose: il mass media che oggi fa la parte del leone, conta appena cent’anni e, perciò, la plebeità nel film è fino a oggi fresca e fa pensare ai complessi della donna di bassa condizione che, grazie alla moda, è riuscita a entrare nei saloni, ma sempre vivono ancora i testimoni della sua lampante esaltazione.La genealogia plebea del film viene incontro alle masse delle società dell’Europa, le quali soltanto dopo il ’68 in Occidente e dopo l’89 nell’Europa Centrale hanno perso il loro carattere ieratico realizzando le fatali profezie di Ortega y Gasset. Il cinema è uscito dalla sagra popolare, dal carnevale delle strade, dalla baracca per danzare e dalla tenda da circo, e la sagra ha raggiunto oggi il cinema, come ha raggiunto altre più antiche discipline dell’arte. Andy Warhol oppure Philip Glass sono in realtà da sagra come, nel cinema, è da sagra Tarantino e, ancora poco tempo fa, lo era Chaplin. Il circolo che ha segnato il cinema è impressionantemente stretto e bisogna averlo davanti agli occhi se vogliamo parlare della nudità, della bellezza e dello scandalo che questa bellezza accompagna. E quando scrivo del circolo, voglio rammentare che, a dispetto della sua provenienza plebea, in un secolo appena il cinema ha prodotto maestri di alta arte come Bergman, Tarkowski, Buñuel o Fellini.Alla base del film giace la fotografia con la sua gravitazione naturale verso l’esatta riproduzione di ciò che lo sguardo scorge. La pittura, di sua natura, era condannata all’interpretare, al trasformare l’impulso diretto. La fotografia, invece, si sforza di trasformare, ma senza alcuno sforzo: riproduce ciò che vedono gli occhi. In questo fatto si scorge la debolezza naturale della fotografia statica e di quella mobile, nella quale di obbligo è soltanto la scelta del campo visivo cioè la cornice (che nel film si chiama inquadratura).Il pigiare del bottone della macchina fotografica o della cinepresa fa iniziare automaticamente il processo la cui essenza consiste nel registrare esattamente l’immagine o arrestata nel tempo, o (nel caso del film) catturata nel suo passare; il tempo si lascia immortalare, ossia in un certo senso arrestare. La cinepresa stacca brandelli del tempo, li separa dalla corrente con la quale il tempo naturalmente scorre e permette di rianimare il tempo, cioè di riprodurlo in un altro tempo.E la nudità? In tutta la cultura dei Paesi che si sono trovati all’avanguardia dello sviluppo, la nudità viene pudicamente velata e ciò la sacralizza. L’essere umano nudo o è vilipeso come nella camera a gas del campo di concentramento, o è esaltato se, in via eccezionale, è stata sospesa l’azione del tabù. Ciò di solito avveniva nelle arti figurative quando la nudità veniva resa sublime, diventando l’espressione dell’armonia e l’avvicinamento alla perfezione. Tale fu il nudo presso Fidia: non erotico, perché non da utilizzare, non riprodotto esattamente, ma vicino all’ideale – espressione degli analisti, e non dell’esatta riproduzione.Durante il secolo della sua esistenza, il cinema ha parecchie volte provato a idealizzare il corpo nudo. Lo ha fatto con grande ipocrisia fingendo che si trattasse della bellezza perfetta, ma in realtà trafficando l’erotismo e la cripto-pornografia (non ce ne sono molti esempi simili nella pittura?). Nella trivialità del fotografare il corpo, il cinema tradiva la sua natura plebea: sotto la presunta sublimazione del corpo cercava di far avvicinare il frutto proibito, di incantare con spettacolo inaccessibile il quotidiano compreso nel prezzo del biglietto. Al di sopra della trivialità, però, si trovavano quei produttori che sapevano contemplare la bellezza fisica e mostrarla in modo sublime come facevano i pittori. Se guardiamo i film di Bergman o di Fellini, di Resnais o di Kurosawa, la nudità viene in essi, a volte, adoperata come uno strumento da sublimare. Lo scettico dirà sempre che in questa nudità domina il difetto naturale della fotografia, ossia un velato guardonismo. È difficile debellare quest’argomento, ma si può snobbarlo.La plebeità della cultura moderna nei tempi solo di nome moderni assolutizza la libertà umana senza tabù e alcun freno. La realtà sociale (per fortuna! – a mio avviso), però, è sempre distante da questi postulati. Ma anche non meno assoluto, rispetto alla libertà, il postulato dell’uguaglianza universale ha messo in dubbio il valore della bellezza fisica, che è un raro fenomeno nella natura, a favore della sanzione della mediocrità. Anzi, una peculiare perversità eccita il culto dell’orrido come espressione dell’emancipazione. Ciò che è brutto è universale e, perciò, esige per sé approvazione. E così, le società opulente vivono in una illogica divisione. Da una parte, grazie allo sforzo della chirurgia plastica e delle cliniche per dimagrire, singole persone desiderano avvicinarsi all’ideale di Fidia. Dall’altra parte, la mancanza di ogni proibizione popola le spiagge dell’Europa e degli Stati Uniti con individui obesi i cui canoni di bellezza provengono da Botero. Il cinema, specialmente quello più ambizioso, per motivi ideologici volentieri valorizza la bruttezza. Con ciò, non acquisisce l’applauso delle masse umane ma, in compenso, ottiene certificato di correttezza ideologica. Oltre oceano, a Hollywood, la fabbrica pragmatica dei sogni persiste ancora nel mantenere il canone della bellezza che è lontana dalla mediocrità (tale è, a volte, nella sua nudità cinematografica l’ondeggiante Penelope Cruz, oppure il muscoloso Brad Pitt). Hollywood conta sulle folle, snobbando gli ideologizzati ceti più alti. Per questo, a mio parere, nei film di Hollywood la nudità è più spesso discreta, ma vicina agli ideali classici. Nell’Europa decadente, invece, viene ripresa la nuda bruttezza cercando la giustificazione nella persuasione che la bellezza conduce all’oppressione. Mi è difficile trattenermi dal confessare che preferisco l’oppressione alla bruttezza.