La storia straordinaria di Louis “Louie” Zamperini in America è diventata celebre per le due autobiografie e un libro biografico Sono ancora un uomo. Una storia epica di resistenza e coraggio
scritto da Laura Hillebrand che Mondadori ha appena ripubblicato con il titolo Unbroken,
"Indomito” (Pagine 457. Euro 19,00). Libro che è diventato il film diretto da Angelina Jolie. Una pellicola molto attesa negli Stati Uniti e che sarà sul grande schermo, in contemporanea mondiale, dal prossimo 29 gennaio. L’attore Jack O’Connell presta il volto a Zamperini nel lungometraggio della Jolie che ha conosciuto bene il mezzofondista e filantropo italoamericano, frequentandolo fino alla fine dei suoi giorni. «Questo film - ha detto l’attrice e regista vuole essere un omaggio a quello che considero un esempio per i miei figli, che spero terranno a mente per sempre». Tre uomini e un canotto alla deriva in un Oceano tutt’altro che Pacifico: branchi di squali a tracciare cerchi in attesa di avventarsi su quei corpi sfiniti, ridotti (dopo 47 giorni di resistenza in mare aperto) a carcasse per le iene dei mari. Quando il puntatore bombardiere dell’Army Air Forces, Louis Zamperini, finì nelle acque e poi nelle mani del nemico giapponese, era ridotto a una larva e oltre al suo proverbiale sorriso aveva perso 35 chili. Una visione spettrale, rispetto a quella splendida figura atletica che, soltanto un mese prima, veniva celebrata nel suo Paese come quella del «miglior mezzofondista»: l’unico uomo in grado di scendere sotto i 4 minuti sul miglio. Un talento che aveva imboccato la pista d’atletica dopo essersi allenato, fin da bambino, all’arte della fuga per scappare dai malcapitati che derubava nel villaggio di Torrance, sud California. I suoi genitori, immigrati italiani, dal veronese Castelletto di Brenzone, (il padre Antony era stato un pugile) si erano trasferiti lì dallo stato di New York, per via del clima più mite che giovava ai polmoni minati di Louis Silvie Zamperini. Per i suoi cari “Louie”, la peste del paese, «l’italiano» mano lesta che ben presto incappò nella vendetta del branco razzista, i bulli che mal tollerandone origini e lingua («in casa si parlava solo italiano») lo riempivano di calci e pugni. Mamma Luisa, la dolce Louise Dossi, accarezzava la testa confusa e infelice del suo piccolo diavolo solitario, il ribelle e svogliato Louie, che, in famiglia come in società, subiva il confronto quotidiano con l’esemplare Pete. Il fratello maggiore, Pete l’elegante, lo studente modello con tanto di «ten versity letters» (il massimo dell’eccellenza scolastica) e per di più atleta di prospettiva. Ma a 14 anni, nel 1931, avvenne la miracolosa metamorfosi. Forse anche intimorito dal boom dell’eugenetica scoppiato negli Usa, con le conseguenti sterilizzazioni effettuate su “soggetti difficili”, Louis decise di modificare radicalmente stile di vita. Risultato: ottimi voti a scuola e grazie a Pete la scoperta di un nuovo mondo: l’atletica. A 16 anni Louis Zamperini - che al debutto si presentò in short nera, ricavata da una gonna della madre - correva il miglio in 4’e 42’’ e i giornali cominciarono a titolare: “Il Ragazzo che vola!”. Dopo aver umiliato tutti gli avversari dei campionati liceali, il “Tornado di Torrance” nella due miglia di Compton diede cinquanta metri di distacco a suo fratello, e una lezione memorabile agli altri tredici avversari, allievi della Southern California. Il college dove l’anno dopo, 1934, stabilì il nuovo record nazionale scolastico, migliorandolo di due secondi, 4’21,3’’. Da simpatica canaglia a superstar, il tempo di uno sparo dello starter che, all’orizzonte, si presentava la grande occasione: le Olimpiadi di Berlino 1936. Ma per arrivarci doveva prima superare la concorrenza di tre atleti più navigati: Bright, Lash e Deckard. Tre i posti disponibili per entrare nella formazione Usa e in quel luglio del ’36, in una New York in apnea per l’afa estiva (41 gradi), nella prova dei 5mila Zamperini si presentò all’arrivo spalla a spalla con Lash. Per i giudici e per la piccola comunità in delirio di Torrance, il vincitore era solo uno, il “Tornado”. Poi ,però, il verdetto venne ribaltato a favore di Lash, ma il “ragazzo italiano” era riuscito a staccare il biglietto per i Giochi del Führer. Era «il più giovane mezzofondista» entrato nella squadra olimpica degli Stati Uniti. Voleva stupire il mondo quel 7 agosto del ’36, ma affrontò i 5mila metri con l’incoscienza dei suoi 19 anni e l’istinto del talento privo di malizie tattiche. Così, quando si accorse che il finlandese Hockert, vincitore dell’oro olimpico, era diventato un puntino piccolo e irraggiungibile, Louie cominciò a recuperare e con la forza della disperazione risultò il più veloce dell’ultimo giro. Un ottavo posto che sarebbe rimasto anonimo se salendo sul palco d’onore non avesse ricevuto i complimenti plateali di Hitler che lo salutò: «Ah, lei è il ragazzo con il finale veloce ». Un momento storico di quella sua prima e unica Olimpiade, della quale serberà il ricordo di una sbornia di birra tedesca e il furto di una bandiera della Germania nazista. Antico vizietto che stava per scatenare un incidente diplomatico, smorzato ad arte dalla stampa americana che lo aveva eletto a pupillo. Al ritorno in patria, infatti, venne salutato come un eroe nazionale e con la certezza che quattro anni dopo sarebbe stato sicuramente Zamperini l’oro dei 5mila. Le Olimpiadi del ’40 si sarebbero dovute tenere a Tokyo, ma lo scoppio della guerra le cancellò di colpo. In Giappone il bombardiere Zamperini ci arrivò lo stesso nel maggio del 1943, arruolato in seguito all’attacco di Pearl Harbor. Dopo l’abbattimento del suo aereo sopravvisse allo schianto con i commilitoni Russel Allen Phillips e Francis McNamara, ma quest’ultimo morì al 33° giorno di naufragio. Per Louie e Phillips seguì il campo di prigionia di Ofuna dove gli internati «venivano tenuti in isolamento, malnutriti, tormentati e torturati perché rivelassero segreti militari». Tra i suoi aguzzini “morbidi” ritrovò Sasaki, ex studente con lui alla Southern California, ma in realtà spia al servizio dell’esercito nipponico. La sua bestia nera però la trovò nell’“Uccello”, il terribile caporale Mutsuhiro Watanabe. Il boia che, dopo giorni di digiuno, lo costringeva a sfidare nella corsa atleti giapponesi, sarebbe riapparso nei i suoi incubi postbellici, quando scampato alle persecuzioni riuscì a tornare ancora una volta in patria da eroe. I postumi delle ferite a una gamba gli imposero lo stop a quella che poteva essere una radiosa carriera di atleta, ma ben più profonde erano le cicatrici impresse nell’anima di un uomo che si era perso nell’alcol e che stava per mandare a rotoli il matrimonio con la bella e cinematografica Cynthia. A salvare Zamperini e la sua famiglia, è stata la riscoperta della fede. I sermoni del predicatore battista Billy Graham lo strapparono al «buio» in cui era precipitato e riaccesero in lui la luce del cristianesimo. Il sorriso ritrovato, splendeva come il sole caldo della California l’estate del 1954, quando diede vita ai Victory Boys Camp. Un campeggio «senza fini di lucro» in cui, memore di ciò che era stato lui in gioventù, accoglieva e salvava “ragazzi a rischio”. Una missione che lo ha reso il miglior testimonial sportivo sul campo. Nonostante gli acciacchi dell’età continuò a stupire, a correre e ad arrampicarsi ogni settimana sul Cahuenga Peak. Novantenne (è morto lo scorso luglio a 97 anni) non rinunciava a salire sullo skateboard. Con la sua «incorreggibile allegria» è andato incontro al mondo e avrebbe teso la mano persino al più crudele dei nemici. Invitato come tedoforo ai Giochi invernali di Nagano 1998, doveva incontrarsi con «l’Uccello», che dato per morto, quel giorno in realtà volò lontano dall’appuntamento con quel passato che tornava da una terra straniera. Una delusione per il vecchio caro Louie che correndo nel vento aveva imparato la lezione più importante: «Tutto accade per una ragione e a fin di bene».