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Cinema. «Io ex sposa bambina e il mio film contro i muri dello Yemen»

Luca Pellegrini sabato 30 aprile 2016
Quando Najla tiene in braccio la sorellina appena nata, pensando che sia un dono di Dio, la chiama Nojoom, che vuol dire “stella”. Il papà, accigliato, la redarguisce: «No, il suo nome è Nojood, ossia nascosta». In una società come quella yemenita ancora in preda a una serie di ancestrali pregiudizi, il suo destino sembra inscritto non nel cielo stellato, ma nelle tradizioni primitive degli uomini. Per questo Nojood sarà venduta all’età di dieci anni al suo futuro marito, che ne abusa. Unioni ancora in uso nelle zone rurali più arretrate dello Yemen, che le autorizza. Ma è stata anche l’esperienza indelebile vissuta da Khadija Al-Salami, che dopo una carriera dedicata al documentario ha deciso di affrontare, nel suo primo lungometraggio di finzione La Sposa Bambina – Mi chiamo Nojoom, ho 10 anni e voglio il divorzio, proprio la quotidiana realtà cui sono vittime tante adolescenti. Il film, che chiuderà il Festival dei Diritti Umani di Milano il 7 maggio e sarà nelle sale italiane dal 12, è tratto dall’omonimo romanzo di Nojoud Ali e Delphine Minoui, edito da Piemme, del quale la regista yemenita – nata a Sana’a nel 1966 e oggi residente a Parigi dopo aver studiato all’American University di Washington  –, si è assicurata i diritti per poter così girare un film il più possibile vicino alla realtà. Compresa la solitaria e pericolosa battaglia di queste giovanissime vittime per chiedere un divorzio che le liberi da una  condizione di semi-schiavitù. Succede però non soltanto nello Yemen. «Ogni anno nel mondo 50 milioni di giovani sono costrette a fare questa esperienza, se non cominciamo subito a combattere si stima che in quattro anni saranno 140 milioni. Cifre da paura. Vengono da famiglie povere, senza educazione, soggette a ogni tipo di abuso e di violenza domestica. 70.000 muoiono ogni anno per emorragie interne o parti prematuri. Ma non se ne parla». Avrebbe mai pensato di poter raccontare un giorno in un film quella che è stata anche la sua dolorosa storia personale, oltre che i fatti realmente accaduti nel 2008 a Nojood? «Ovviamente ho pensato a questo soggetto nel corso di tutta la mia vita. Ho girato il film perché volevo che il risultato fosse utile alla mia gente, portasse alla consapevolezza del problema, alla necessità di cambiamenti, a una maggiore educazione. L’ignoranza è devastante, molti non si rendono ancora conto che con questi matrimoni commettono dei veri e propri crimini». È stato doloroso per lei ricordare quanto le è successo a otto anni? «Dolorosissimo, per questo ho girato la scena della prima notte di nozze di Nojoom proprio l’ultimo giorno delle riprese del film. Ho ricordato molte cose che mi erano accadute e che avevo fatto io stessa, come quando la piccola protagonista sbatte la testa contro il muro per la disperazione. È stata comunque una terapia molto utile: prima rifiutavo questo mio passato, lo nascondevo dietro di me, come fanno molte delle vittime. Mi vergognavo per ciò che la mia famiglia mi aveva fatto, provavo rabbia». Nel film il giudice, additando un Islam illuminato, esorta a liberarsi dall’ignoranza. «Sapevo che la mia famiglia mi amava, pur gettandomi in questo incubo. Ho capito che il problema era culturale, i miei genitori erano cresciuti sotto il peso di certe tradizioni e valori, credevano fosse giusto agire così. Mia nonna mi diceva: “Una ragazza è nata per due cose: essere sposa o essere sepolta”. Non volevo certo finire così. Quando mi hanno obbligata al matrimonio mi sono rivoltata contro di loro. Dopo tre settimane di violenze ho chiesto il divorzio. I miei familiari credevano volessi disonorarli, distruggere la loro reputazione. Soltanto quando ho tentato il suicidio mia madre ha capito: se non avessi potuto fare la vita che volevo, per me sarebbe stato meglio morire». È ancora diffusa in Yemen questa terribile pratica? «I matrimoni con ragazze al di sotto dei 18 anni sono il 52% del totale, il 14% con bambine sotto i 14 anni. Nelle città la situazione è cambiata grazie all’educazione». Quali sono state le maggiori difficoltà girando in Yemen? «I problemi sono stati enormi. Prima di tutto perché non volevo dire alle autorità che avrei girato questo film, perché mi avrebbero richiesto la sceneggiatura e quasi sicuramente non mi avrebbero concesso il permesso. Naturalmente non ho avuto alcun tipo di aiuto finanziario, ho dovuto portare dall’Egitto tutta l’attrezzatura tecnica. Non avevamo neppure l’elettricità, abbiamo dovuto usare un generatore che ci è stato pure sequestrato e riconsegnato dietro il pagamento di un riscatto. In un villaggio ci hanno imposto di cancellare tutto il girato, in un altro hanno gridato al miracolo perché era la prima volta che vedevano la luce elettrica, un uomo preso dall’euforia è caduto dal tetto ed è morto. Uno dei problemi maggiori è stato di convincere gli attori, a causa del soggetto del film. Non sapevano esattamente che cosa stavamo girando se non giorno per giorno». Lo Yemen come ha accolto il suo film? «Non ci sono cinema in Yemen, ora il Paese è pure in preda alla guerra, che mi ha impedito di tornare. L’unico modo per la gente di vederlo è riuscire a trovarlo in Dvd. Ho anche saputo che alcune organizzazioni non governative per i diritti umani hanno organizzato delle proiezioni e dei dibattiti. La vera gioia è che molte bambine sono uscite dal loro silenzio, si è generata una maggiore consapevolezza. Non tutti sanno leggere in Yemen, ma tutti possono vedere e le immagini sono sempre più coinvolgenti delle parole. Auspico che le autorità competenti siano costrette a votare finalmente una legge che proibisca questi matrimoni». Nel film ha coinvolto anche la sua famiglia. «Sapevo che sarebbe stato impossibile trovare due bambine che avrebbero potuto sostenere il ruolo di Nojoom a 5 e 10 anni, le famiglie lo avrebbero impedito con tutti i mezzi. Ne ho parlato con mia sorella, che vive a Sana’a, e mi ha detto: “Perché sei disperata? Non ti ricordi che hai due splendide nipotine proprio di quell’età?”. Ho chiesto alla loro scuola il permesso per averle con me per due mesi. Sono diventate due splendidi attrici».