Agorà

Ritratto di scrittrice. La gioia sorprendente di Virginia Woolf

Massimo Onofri martedì 27 febbraio 2018

Virginia Woolf (Ap Photo)

A leggere molti dei bellissimi scritti inclusi in Libri e ritratti, approntato per Elliot da Mary Lyon (traduzione di Claudia Ceccarelli e Veronica De Caro-lis), pare di sentire la sua voce. Parli di Boswell Coleridge o Kipling, di Emerson Thoreau o Melville, delle regine Elisabetta e Adelaide o Sarah Bernhardt, colpisce sempre la naturale affabilità, la facilità di passare dalla vita al libro e viceversa, la forza d’una grande intelligenza critica calata con semplicità nella quotidianità, con cui Virginia Woolf, dalla sua stanza tutta per sé, sa rivolgersi ai lettori. Epperò, altrettanto cordiali e autentiche sono le voci di chi l’ha conosciuta da vicino, taluni sin dagli anni della più acerba gioventù. Le ventisette testimonianze cui mi riferisco – tredici donne e quattordici uomini, tutti per diverse ragioni d’eccezione – le aveva messe insieme per l’edizione inglese del 1972 Joan Russel Noble, ma ora, tradotte da Lucia Gunella per la cura di Liliana Rampello (che ha anche scritto la bella introduzione), raggiungono finalmente il pubblico italiano, stampate da il Saggiatore col titolo Virginia Woolf e i suoi contemporanei, munito per di più d’un elegante apparato iconografico costituito soprattutto da fotografie, quadri e disegni. Si potrebbe partire da chi le fu quotidianamente accanto – che so? Clive Bell, il primo marito dell’amatissima sorella Vanessa, e poi il compagno di lei, Duncan Grant, la nipote Angelica Garnett, gli amici del mitico gruppo di Bloomsbury –, ma forse è meglio muovere dalla meno celebre, la deliziosa cuoca Louie Mayer, la quale rimase al servizio del marito Leonard anche dopo la tragica morte di lei, per smentire un vecchio adagio: e cioè che nessuno è re per il proprio cameriere. Dalle parole di questa collaboratrice domestica apprendiamo invece che Virginia poteva apparire anche più d’un re: se, ovviamente, la si riusciva a capire così profondamente, come riesce, appunto, a Louie Mayer.

Si diceva che qui, per arrivare a confrontarci con la più privata vita di Woolf, non ci troviamo davanti a personaggi qualsiasi, ma spesso a veri giganti della cultura inglese di quegli anni: i nomi di Edwar Morgan Forster, Thomas Stearns Eliot, Alix Strachey, Rebecca West, Elisabeth Bowen, Christopher Isherwood, Angelica Garnett, già da soli, potrebbero bastare. Il fine che Liliana Rampello persegue sin da subito è di evitare uno dei modi più frequenti di leggere questa grande scrittrice, e cioè quello di «far rivedere tutto alla disperata luce» del gesto estremo del suicidio, a partire dal quale s’è voluta costruire la sua leggenda nera, di donna travolta dalla depressione e ossessionata dalla pazzia. Rampello invece non ha dubbi: Virginia va restituita finalmente alla sua vita, che fu quella d’una donna vitalissima e generosa, attenta a tutti, coi suoi conflitti certo, ma allegra e piena di gioia (la donna che, in una festa a tema dedicata a Alice nel paese delle meraviglie, si maschera da Lepre Marzolina), una che ci viene incontro «con la sua risata beffarda, la voce bassa e melodiosa» e che fu molto amata da chi le stava accanto o la frequentava. E per molte delle sue più giovani amiche, talvolta un po’ impaurite, anche un genio, di vocazione antimondana. Nel senso in cui ce la restituisce Alix Strachey, la cognata di Lytton, che aveva studiato a Vienna con Freud, e che, del matrimonio tra Virginia e Leonard, restituiva un’immagine entusiastica: «Sembrava appartenere a un altro mondo ed ero incantata da lei». E che l’adora così com’è, prigioniera delle sue fantasie, convinta che Leonard avesse fatto bene a non rivolgersi a uno psicanalista: «È preferibile essere pazzi e creativi, che essere curati dall’analisi e diventare comuni». Un giudizio, quello sull’antimondanità, confermato da Rebecca West, al suo modo sempre irriverente: «È difficile descriverla, perché aveva una qualità fantasmatica. Poteva sederti di fronte, eppure l’impressione che lasciava è difficile da ricordare, come fosse uno di quei fantasmi che si vedono soltanto quando svoltano l’angolo».

Quel che più sorprende, però – perché si tratta d’un fatto inconsueto tra contemporanei – , è il giudizio estremamente lusinghiero che sulla sua opera – lei ancora viva e attiva –, quasi si trattasse già d’un classico, danno i più criticamente titolati, tra le massime intelligenze letterarie del secolo scorso, ovvero Eliot – del quale Virginia e Leonard con la loro Hogarth House erano stati i primi editori inglesi – e Forster. Osserva Eliot in conclusione della sua testimonianza: «Virginia Woolf era al centro non soltanto di un gruppo esoterico, ma della vita letteraria di Londra». Per concludere con la certezza che, quando venne a mancare, si fosse «infranto un intero modello culturale». Ecco: «Da un certo punto di vista può essere solo un simbolo di questo, ma non lo sarebbe se non fosse stata, più di chiunque al suo tempo, la custode». Forster, che la ritiene del tutto esente dal desiderio di guadagno e dalla ricerca della fama, non è da meno, mentre la insegue opera per opera e ne sottolinea l’alto tasso di sperimentalismo: «Amava scrivere con un’intensità che pochi altri scrittori hanno mai raggiunto o anche solo desiderato». Suggestiva, poi, l’interpretazione che fornisce del suo femminismo non progressivo: «Non prendeva in considerazione le possibilità di migliorare il mondo, perché il mondo è fatto dall’uomo e lei, una donna, non era responsabile del suo caos». Senza dire della risposta che si dà per meglio capire il suo rifiuto di «intreccio e storia» nella narrativa: «È un poeta che vuole scrivere qualcosa che s’avvicini il più possibile a un romanzo». Per Eliot e Forster, ma anche per Isherwood, Woolf è insomma, da subito, una scrittrice canonica. Non sarà un caso se persino l’eurocentrico Harold Bloom, il critico più vituperato dalla sinistra americana femminista e terzomondista, l’abbia inserita – unica donna insieme a George Eliot ed Emily Dickinson – nel suo Canone occidentale (1994).