Cinema di classe. Roberto Mussapi: «Wenders e Disney in cattedra come i classici»
"Il cielo sopra Berlino" di Wim Wenders
Carlo Verdone ha ragione. Su queste pagine ha proposto di istituire l’insegnamento del cinema nelle scuole. Che l’attore, comico eccezionale e uomo intelligente a tutto campo, abbia ragione, mi pare evidente. Tra l’altro questo è l’anno giusto.
Sì, perché quest’anno dovremmo celebrare il trentennale di un capolavoro, un’opera d’arte che ha segnato indelebilmente il secolo volgente al termine, gettando semi di speranza per l’Europa e il mondo a venire. Una storia meravigliosa, una magnifica fiaba intensa come un sogno di Shakespeare. Angeli, innamorati degli umani. Vivono sugli spalti della cattedrale di Berlino, accompagnano, custodiscono gli uomini, volando dalle guglie della cattedrale: non possono evitarci la morte, il dolore, ma possono custodire, proteggere, possono piangere per noi, unica facoltà umana a loro concessa, pur senza lacrime. Alcuni di loro, per amore dell’uomo hanno rinunciato alla loro natura facendosi umani, e quindi perdendo il dono dell’immortalità, un po’ come la Sirenetta di Andersen e Disney.
Con Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, un artista riprende il tema più forte e potente della nostra esperienza: il dialogo tra la terra e il cielo, interrogando gli esseri medianici che legano i due mondi. Gli angeli. La pittura italiana del ’500, la Divina Commedia, sono i pilastri di questo tema, in Occidente, riccamente frequentato anche in Oriente, basti pensare a La lingua degli uccelli, il poema sapienziale del mistico sufi persiano Attar. Tema che anima, in versione profana, il teatro di Shakespeare, continua esplorazione dello spazio onirico in cui cielo e terra si incontrano, dagli elfi e le fate del Sogno ai voli di Ariel nella Tempesta… Basti questo esempio per mostrare come il cinema vada studiato a scuola, accanto alla letteratura. E colgo anche la positività sottesa nella proposta di Verdone: se aggiungiamo il cinema e la sua storia vuol dire che non aboliamo la scuola.
Il cinema può essere potente quanto la grande poesia o i maggiori romanzi, ma più diretto, immediato. È immagine, ma è simultaneamente voce, parola, dialogo racconto, poesia: letteratura.
Utile, credo, l’esempio di Wenders per alcuni aspetti emblematici della sua vicenda: il regista a un certo punto scopre di essere diventato, contro i suoi originari intenti, un narratore di storie: «Penso che Paris, Texas sia stato il primo film in cui ho capito di non essere un pittore, ma, con mia grande sorpresa, un narratore. (…) Io credo che il dovere di un regista sia soprattutto di avere qualcosa da dire: avere il desiderio di raccontare una storia».
La capacità di narrare e leggere storie è il fondamento di una civiltà, le storie sono manifestazioni del mito, prove del nostro stupore e curiosità, bisogno di conoscenza e avventura. Parola inscindibile dalla visione, il cinema è un genere poetico sognato dai tempi delle danze nelle caverne, dipinte, salmodiate da versi rituali. Una riflessione sui fondamenti, ma anche storica. Da Bergman a Fellini, da Kurosawa a Weir, da De Sica a Polanski, un rapporto che nasce e si manifesta con esiti a volte straordinari.
Il cinema poi ha compiuto un miracolo: dalla nascita dell’uomo esistono le fiabe, a cui mancava qualcosa,:è quanto ha dato alla fiaba Walt Disney con il cartone animato. Animato è termine che deriva da anima. Disney appare nel momento in cui il cartone animato, dopo una lunga gestazione, sta nascendo, e subito gli conferisce forma, apporta innovazioni tecniche e strutturali fondamentali, lo orchestra, facendolo uscire dalla fase sperimentale e illusionistica. Verso la fine degli anni Trenta accade qualcosa di nuovo nella sua mente e di conseguenza nella sua produzione. Dopo avere inventato le favole, Disney e poi la casa di produzione che ha ereditato il suo insegnamento, con la maturità di un classico, si volsero ai classici e decisero di riscrivere le grandi fiabe dell’umanità, le fiabe e quelle opere narrative naturalmente magiche quanto metafisiche, pensiamo al Racconto di Nataledi Charles Dickens, protagonista un prodigioso Paperone. Decise di rileggere una tradizione dell’anima, il mondo di Andersen, Perrault, Grimm, Le mille e una notte, accanto ai romanzi intrisi di avventura e sogno.
Un’intuizione fulminante: narrare col linguaggio del cartone animato i classici dell’immaginazione e del sogno di animazione, se tutta la fiaba, come la conosciamo, è il mondo della metamorfosi, del divenire, dell’animazione degli oggetti e della presenza di un’anima universale che soffia negli umani quanto nelle cerve, nei lupi, nelle brocche, nelle fontane, nelle rane che diventano principese e nelle principesse che diventano rane: la fiaba era il cartone animato in nuce.
Queste considerazioni mostrano come il cinema sia imparentato strettamente con la fiaba, il racconto, la poesia: i fondamenti della letteratura. Che è un fondamento dell’educazione scolastica, accanto alla filosofia, alle discipline scientifiche e all’educazione fisica.
Non vorrei essere frainteso: il fatto che quest’arte sia legata ai filoni fondanti della letteratura, non la riduce a una sua derivazione: il cinema è arte assoluta e autonoma, poiché basata anche sulla luce, l’immagine, e quindi l’esperienza dell’arte. Inoltre esprime un paradosso profondo, relativo al nostro senso del tempo e della memoria. Mentre il teatro vede il personaggio apparire in scena e svanire, Amleto ha sofferto e si è disperato e alla fine è morto, ma un’ora dopo, non più Amleto ma Giorgio Albertazzi, lo vedi, vestito da tuo contemporaneo, in pizzeria con quella che in scena era Ofelia, i volti del cinema vivono oltre la morte del loro attore. Marilyn continua a vivere, come Mastroianni e Bruno Cortona, il Gassman del Sorpasso, anche se non respirano più in questo mondo. Il cinema prolunga la vita memorabile del personaggio e del suo interprete, adombra una sopravvivenza di ognuno di noi, spettatori, oltre la fine della vicenda terrena. Il cinema è anche sospetto, adombramento di vita ulteriore, di immortalità dell’anima.