Agorà

Arte. William Congdon e Raul Gabriel: sacro è riconoscere la verità nel visibile

Alessandro Beltrami mercoledì 11 ottobre 2017

Particolare del "Tau#12" di Raul Gabriel (2017)

Quando si chiama in causa il tema del rapporto tra arte contemporanea e sacro spesso si compie un errore di fondo: dare per scontato che nella storia questo legame fosse saldo e assodato. Ma è stato davvero così? Ovvero: è sufficiente che un’opera abbia un soggetto religioso perché questa lo sia anche davvero, in profondità? Due mostre vedono opere dell’artista italoargentino Raul Gabriel in confronto con realtà molto diverse: in “Corpo Vivo” a Milano, nella chiesa di Sant’Angelo (da oggi fino al 30 novembre) con un maestro del ’900 come William Congdon; a Tortona (dove fino a domenica è anche allestita una personale nell’ex cotonificio Dellepiane) nel Museo diocesano con opere cinque-seicentesche della collezione ecclesiastica e lavori di Pellizza da Volpedo, Previati e Barabino, provenienti dalla pinacoteca “Il Divisionismo” della Fondazione CR Tortona (fino al 27 novembre).

In “Corpo Vivo”, promossa da Fondazione Crocevia e curata da Giovanni Gazzaneo, in particolare troviamo affiancati in modo diretto il Crocefisso 101 (1974) di Congdon e un recentissimo Tau di Gabriel. Sono opere completamente nere. La radice formale ed estetica è diversa, ma entrambe hanno la capacità di generare una profonda empatia. Il dipinto di Congdon è una massa densa e tenebrosa; la pelle tormentata – e così capace di catturare le luce – dell’opera di Gabriel disegna un grande segno a T, una forma persino uterina: eppure sono pochi i dubbi che in entrambi i casi si tratti di una croce e, soprattutto, del corpo crocefisso. Riusciamo a riconoscerlo non perché lo sembrino ma perché sentiamo esserlo, e nella sua verità più profonda: kenosis, dubbio, attesa. È proprio quanto accade, con altri mezzi espressivi, nel Compianto tardo cinquecentesco del Museo di Tortona, in cui ritroviamo la poetica dei Sacri Monti. Lì l’artista non si è limitato a docere (visualizzare la storia sacra) né soltanto a movere (esaltare il pathos dell’episodio), ma ha scelto di docere movendo e movere docendo.

È forse proprio nella disgiunzione tra docere e movere, e nel loro impoverimento, il problema di molta arte sacra: di tutti i secoli, ma specialmente (più ancora che il disinteresse da parte della committenza verso l’evoluzione del linguaggio artistico) di quella degli ultimi due. Il problema è l’avere pensato che quello dell’arte in ambito sacro fosse semplicemente un fatto di modelli iconografici. Un’immagine il cui unico scopo è la riconoscibilità dell’enunciato è solo apparentemente pedagogica mentre è semplice strumento mnemotecnico. Oppure, dall’altra parte, un’immagine popolarmente sentimentale deve la facile presa alla sua stessa superficialità, che neppure rasenta l’orlo di quel mistero che invece vorrebbe e dovrebbe rappresentare. Nessuna di queste vie è in grado né di docere né di movere autenticamente: un’operazione che richiede invece un certo margine di rischio e ambizione.

La secchezza del docere mnemotecnico e il languore del movere sentimentale sono funzionali a un sistema centrato su una devozione fondata sull’adempimento rituale, mentre il docere movendo (e viceversa) ha la capacità di attivare in profondità e dare una direzione forte alla devozione più autentica e intima, tanto personale quanto comunitaria. Potremmo fare ancora un passo e individuare un gruppo di opere (particolarmente numeroso, forse persino maggioritario) la cui funzione è solo strumentale, essere cioè semplice “terminale visivo” di una preghiera. Qui non è più neppure questione di movere o docere perché l’opera non deve neppure “parlare”. Appare chiaro, dunque, che il vero tema della questione non è tra arte antica e contemporanea sul sacro, ma di arte antica e contemporanea con il sacro.

L’autentico docere non è un’operazione di conferma e irrobustimento di certezze ma l’apertura della coscienza: l’insegnamento di Cristo nei Vangeli è quanto di più destabilizzante abbia mai conosciuto la storia umana. In docere e, in misura ancora più trasparente, in movere c’è uno dei cardini del pensiero di Raul Gabriel: il movimento vitale generato da uno sbilanciamento. Il movere è dunque un cedere a se stessi, uno scivolare fuori dalle proprie rigidità, frante dal colpo d’ariete vibrato dal riconoscimento di una verità. La grande opera d’arte è la prova di tutto questo: non solo perché irradia attorno a sé un’onda destabilizzante nei confronti di chi osserva ma perché è anche rivelatrice rispetto alle opere che vi stanno attorno.

Le opere di William Congdon e di Raul Gabriel negano ogni appiglio narrativo, eppure trattengono chiusa nell’immane pressione dell’istante tutta la densità del racconto. Se nei grumi di Congdon e nelle colate di Gabriel identifichiamo il corpo crocifisso è perché la forza di queste opere risucchia, insieme allo sguardo, tutto noi stessi nella loro profondità. Identificazione è dunque un riconoscere che non è dato da un’apertura di credito ma da un moto irresistibile che porta il sé verso e dentro l’altro. Spesso l’opera d’“arte sacra” viene descritta come un traino verso l’alto, quasi un “ascensore” di bellezza, oppure come un luogo epifanico, dove Dio discende sulla terra. È invece il luogo di un incontro, quasi in parità (perché empatico è il moto divino verso la creatura), di una risonanza tra il corpo, la storia e il “presente” di Cristo e il corpo, la storia e il presente dell’uomo. Dunque l’arte sacra non è un problema di “rendere visibile l’invisibile”, semmai di “riconoscere ciò che è già visibile”: un atto sconvolgente e trasformante che si radica in tutti quei passi evangelici (dalla nascita a dopo la resurrezione) il cui cuore è l’agnizione di Gesù come il Cristo.