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Il presidente. George Weah: «Alla guida della Liberia inizio la partita più difficile»

Claudio Pollastri venerdì 2 febbraio 2018

George Weah quando come calciatore giocava nella nazionale liberiana

Il “Re Leone” George Weah, 51 anni, ex calciatore, ha da poco giurato come Presidente della Liberia. Paese difficile dove «due guerre civili ed Ebola hanno causato 250mila morti. Il 54% della popolazione vive sotto la soglia della povertà, un milione e 300mila persone sono in condizioni di povertà estrema», il quadro reso da Weah neopresidente liberiano che del calcio e della sua esperienza italiana ricorda: «Nel Milan ho imparato più che in ogni altra squadra. Quando c’è un problema in un’organizzazione, come per esempio il Governo di uno Stato, è perché tutti pensano ai fatti loro..».

Scusi, presidente, ma si ricorda come salutava i tifosi milanisti? Loro non l’hanno mai dimenticata.

«Infatti - sorride - Anche dopo l’elezione mi sono arrivate due magliette rossonere firmate da Gattuso e dai ragazzi. La prima con il numero 9, il mio numero quando giocavo nel Milan. E l’altra con il numero 1 inteso come “primo” con la scritta “Presidente George”».

Da Re (Leone) a presidente: un bel salto!

«Voglio ringraziare tutti gli italiani. Mi hanno insegnato molto. E mi sono stati vicini. Sempre. Vivere in Italia è stata un’esperienza meravigliosa. Ho trovato tanti amici. E non solo tra quelli che amano il calcio».

Lei ha sempre dichiarato il suo impegno sociale e politico verso il suo Paese.

«Molti italiani mi hanno aiutato. E continuano a farlo. Mi danno consigli. Intervengono anche economicamente».

C’è un grazie speciale?

«A Silvio Berlusconi. Che in passato ha fatto tanto per me e indirettamente per la Liberia. Si è subito complimentato dopo la mia elezione, così come ha fatto Adriano Galliani. Anche da voi ci saranno le elezioni. Se Berlusconi dovesse vincere magari potremmo parlare. Conta la sostanza. E la Liberia ha bisogno di amici ».

Però un colpo basso l’aveva dato ai milanisti… Quando ha dichiarato al giornale francese “L’Equipe”, che la sua squadra del cuore è sempre stata la Juventus.

«Da ragazzo guardavo Platini in televisione e sognavo di giocare con lui nella Juventus. L’importante era giocare con Platini, mi ha fatto innamorare del calcio».

Un altro Re: ha mai incontrato “Le Roi” Michel?

«Sì, una volta. Non smettevo di sorridere per l’emozione. Il sogno di giocare con lui non l’ho realizzato. Ma il Milan è stata la mia vera squadra. Quella dei trofei, della popolarità».

E dei soldi.

«Quelli non sono mai stati importanti. Li ho usati per finanziare la causa del mio Paese».

Le rifiutò anche la maglia della nazionale francese per indossare quella liberiana con la quale non ha mai partecipato ai Mondiali.

«Indossare la maglia della Liberia valeva più di un Mondiale. Volevo contribuire alla rinascita del mio Paese, partendo dal calcio». Partendo dal calcio è diventato Presidente. Dal calcio si imparano molte cose.

«Anche dai colleghi? Soprattutto italiani. Quando giocavamo insieme nel Milan Roberto Baggio mi ripeteva che “è tutto un magna magna”. Ho messo la lotta alla corruzione al primo punto del mio programma».

E la libertà?

«Liberia deriva dal latino liber. La libertà è alla base del mio programma politico».

Baggio raccontava che in albergo lei dormiva sul pavimento e mangiava solo riso...

«Un modo per ricordare a me stesso le mie origini. Da dove sono partito, da una bidonville di Monrovia e nel mio villaggio mangiavamo solo una manciata di riso».

Prima del calciatore aveva fatto altri mestieri?

«Centralinista alla Liberia Telecommunications Corporation ».

È importante non montarsi la testa una volta raggiunto il successo?

«Fondamentale. Lo facevo da calciatore famoso a maggior ragione da presidente. L’umorismo e la voglia di sorridere non devono mai mancare nella vita».

Serve anche a sdrammatizzare il razzismo dilagante?

«Non l’ho mai avvertito in Italia. Almeno, non con me».

Tutti ricordano quando pregava in mezzo al campo.

«Prego cinque volte al giorno. Anche per strada, anche quando giocavo. Da presidente? Prego molto di più. Ne ho bisogno. La responsabilità è enorme. Ma so che Dio mi è vicino. E mi aiuta».

Che ruolo ha la religione nella sua vita?

«Dio ci ha creato. Lui mi ha permesso di fare quello che ho fatto e che sto facendo. A lui ogni giorno devo dire grazie. Così come devo dire grazie a mia moglie Clar, - statunitense di discendenza giamaicana -. E grazie ai miei tre figli George Jr, Martha e Timothy George. Senza di loro e senza, l’aiuto di Dio soprattutto, non sarei mai riuscito a diventare presidente».

Come mai aveva fallito le prime due volte, nel 2005 e nel 2011?

«Partecipavo soprattutto con il cuore. Negli anni ho studiato per diventare presidente».

Aveva l’alibi di vedersela con Ellen Johnson-Sirleaf, prima donna capo di Stato di un Paese africano e vincitrice di un Nobel per la Pace.

«Una figura eccezionale. Aveva ottenuto il ritiro della Missione di Pace dell’Onu dalla Liberia e di tutte le sanzioni per la guerra civile».

Apprezzamenti che le fanno onore. Ma lei come si sente nel ruolo attuale?

«Adesso inizia la partita più difficile della mia vita».

A proposito di partita, è vero che ha inserito nel protocollo d’investitura presidenziale una partitella di calcio?

«Il calcio unisce. Quando eravamo in guerra, l’unica cosa che univa la gente era il pallone. Quindi è rientrata nei festeggiamenti nazionali anche la sfida Weah All Stars contro Armed Force Liberia, la squadra dell’esercito. Ho messo la fascia da capitano ma non la maglia numero 9, avevo la 14. Come è finita? Ho segnato il primo dei due gol che ci hanno permesso di vincere, 2-1».

Sarà istituzionalizzata la partitella di fine settimana?

«Non credo. È stata una delle ultime volte che mi avete visto giocare a calcio».

Partita anche diplomatica con il calcio d’inizio dell’ambasciatrice statunitense.

«L’appoggio statunitense è stato fondamentale. Barack Obama ci ha aiutato nella crisi dell’Ebola e non solo. Con Trump? Il fatto che abbia definito “ shitholes” i Paesi africani non ci fa stare tranquilli...».

Una prospettiva che rende ancora più difficile il suo mandato.

«So di avere gli occhi puntati addosso. Sento lo scetticismo di molti, specie di chi pensa che un ex calciatore non possa essere un buon presidente. Ma nei sei anni del mio mandato dimostrerò il mio valore. Ho lottato per diventare presidente perché sono sicuro di poter dare qualcosa alla mia gente. Ci metto la passione. Quando ho iniziato a giocare non pensavo di vincere il Pallone d’oro. Avevo solo una grande passione. Aspettate a giudicarmi dalle mie mosse».

Lei è un esempio per i tanti giovani liberiani che l’hanno votata, che messaggio lancia alle nuove generazioni?

«Che non tutti nascono Weah, però tutti possono provarci. “Liberian dream”? Il mio compito è donargli un sogno. Voglio provare a dare ai giovani l’opportunità che ho avuto io».