Basket. Curry il fenomeno, tra fede e canestri
Stephen Curry, 34 anni, al quarto titolo Nba sempre con la canotta dei Golden State Warriors di San Francisco
Divertiti e rendi gloria a Dio. È questa da sempre la missione dell’ultimo “profeta” del basket a stelle e strisce. Stephen Curry, l’extraterrestre, ce l’ha fatta ancora una volta, riportando i suoi Warriors, i “guerrieri” della baia di San Francisco, sul trono della Nba. Quarto anello personale, settimo per Golden State, che grazie al suo fenomenale trascinatore stacca nell’albo d’oro gli iconici Chicago Bulls (con i sei titoli dell’era Jordan) diventando la terza franchigia più vincente nella storia del campionato di pallacanestro statunitense. Un dominio che dura da quasi dieci anni per una dinastia capace di raggiungere sei finali in otto stagioni e agguantare il quarto titolo dal 2015. Sempre nel nome di Steph, il “killer” del parquet con la faccia da bambino, il più grande tiratore da tre punti nella storia della Nba, il primo e l’unico giocatore a superare i 3000 tiri da 3 messi a segno in carriera. Alto “appena” 188 centimetri, al tempo del college gli dicevano che non ce l’avrebbe mai fatta, perché troppo basso e troppo gracile.
Oggi è l’uomo che ha “abbassato” il basket alla portata di tutti, si fa per dire, perché di Curry ce n’è uno solo e Steph ha posto l’ultimo sigillo (34 punti) anche nella partita, gara 6, che ha infranto le speranze di rimonta dei Celtics. 103 a 90, serie chiusa sul 4-2 e apoteosi proprio nel tempio di Boston, il TD Garden. A riprova però che in questo sport non si vince da soli, il trionfo di Golden State ha tanti volti, soprattutto quelli di coloro che hanno dato vita a questa epopea insieme con Curry: coach Steve Kerr, Draymond Green, Klay Thompson e Andre Iguodala. Ma è anche l’anello degli insospettabili, quelli in cui non credeva più nessuno come Andrew Wiggins o Gary Payton II, che dopo l’ennesimo taglio aveva implorato di rimanere in squadra come coordinatore video pur di avere un’altra possibilità. Emblematica gara 5 della serie finale, con la superstar dei Warriors in una serataccia storica (zero su nove al tiro da tre, record al contrario per Curry) e Golden State comunque vincente. È la rinascita di Thompson, rimasto fuori per infortunio 941 giorni, ma anche la conferma dello stratega di questa orchestra formidabile: coach Kerr, che dopo i cinque titoli da giocatore, mette in bacheca il quarto da allenatore.
Onore comunque a Boston. I Celtics sono stati la vera rivelazione quest’anno e hanno riportato in alto una franchigia che evoca grandi leggende della pallacanestro. I “verdi” sono andati vicino all’anello dei record (con i Lakers condividono il primato di titoli vinti, 17), arrendendosi solo alla squadra che sta egemonizzando la Nba, guidata dall’ultima icona (insieme con LeBron James) del basket Usa: Wardell Stephen Curry II (Curry I è suo padre) nato ad Akron il 14 marzo 1988. A 34 anni è di nuovo sul trono, ha continuato a crederci anche quando, complici gli infortuni, Golden State ha toccato il punto più basso, nel 2019, con sole 15 vittorie e 50 sconfitte: «Ho sempre saputo che alla fine di tutto, l’unica cosa che conta è quello che facciamo in campo - ha spiegato Curry dopo gara 6, subito dopo aver ricevuto il premio di Mvp - Tre anni fa eravamo la peggior squadra Nba? Beh, sappiamo quanto è lunga la strada per arrivare al titolo... Abbiamo lavorato 12 anni per arrivare a questo livello di consapevolezza, abbiamo creato il giusto mix e soprattutto, quando sei alle Finals, è fondamentale conoscere quale sia il modo per vincere. Questo è un titolo diverso dagli altri».
Non è riuscito a trattenere lacrime di commozione, ripensando forse alla sua storia. Perché di strada ne ha fatta il ragazzino che si allenava duramente con suo padre Dell, giocatore Nba anche lui. È arrivato a perfezionare una meccanica di tiro micidiale, infallibile anche da distanze siderali. Ma ha dovuto scrollarsi di dosso pregiudizi radicati, “sa solo tirare” o “a tirare da 3 sono bravi tutti”. Dimostrando di saper fare canestro da ogni posizione del campo e riuscendo a coinvolgere tutti i suoi compagni. E soprattutto mostrando sempre di divertirsi, già quando esce dal tunnel degli spogliatoi. Se oggi ci chiediamo come faccia a indovinare certe traiettorie di tiro o di passaggio non è un mistero invece come i capisaldi della sua vita siano la famiglia e la fede. È sposato dal 2011 con Ayesha Alexander conosciuta in chiesa da ragazzino, con la quale ha avuto tre figli. Cristiano evangelico convinto, ribadisce spesso anche sui social, il suo credo: «La mia fede è messa alla prova sul campo tanto quanto nella vita. È la fede che mi tiene sempre concentrato su ciò che devo fare quando si tratta della mia famiglia, quando si tratta del mio lavoro, quando si tratta di come tratto le altre persone, del mio apprezzamento per la vita e di tutti gli eventi belli che accadono e anche su come affrontare quelli brutti».
Un dono ricevuto da sua madre, Sonya che di recente in un libro ha rivelato di come la fede l’abbia indotta a non abortire Steph. Mentre stava per entrare in una clinica Planned Parenthood, ha sentito l’intervento dello Spirito Santo. E oggi ne è ancor più convinta: «Dio aveva un piano per quel bambino. Poteva non esserci alcun Stephen. Se lo avessi fatto, non ci sarebbe stato nessun Wardell Stephen Curry II». Il numero 30 dei Warriors lo ha sempre riconosciuto: «Fin da piccolo, mia madre è stata una roccia di incoraggiamento, fede, disciplina e gratitudine per me e i miei fratelli ». E ha spiegato anche il gesto ormai celebre con cui festeggia ogni canestro: «Mi batto il petto e indico il cielo, simboleggia che ho un cuore per Dio, qualcosa che mia madre e io abbiamo inventato al college. Lo faccio ogni volta che scendo in campo per ricordare per chi sto giocando. Le persone devono sapere chi rappresento e perché sono quello che sono, e questo è grazie al mio Signore e Salvatore». Una fede visibile anche esteriormente. Sui lacci delle scarpe da anni ci sono i suoi versetti biblici preferiti. Ma anche sul polso spicca un tatuaggio con un passo di san Paolo in ebraico (Corinzi 13,8): «La carità non avrà mai fine».