Agorà

Lirica. Wagner rivive a Dresda con il suo «Ring» umano (e divino)

Giacomo Gambassi, Dresda mercoledì 14 febbraio 2018

Il finale dell’«Oro del Reno» a Dresda (foto di Klaus Gigga-Semperoper)

Richard Wagner voleva che si perdesse nell’aria l’ultimo accordo che chiude ll crepuscolo degli dei ed evoca la redenzione d’amore. E sul podio del Semperoper di Dresda, il teatro lirico di cui il genio romantico è stato kapellmeister, Christian Thielemann lo esegue lunghissimo. Una volta sfumato l’accordo, però, nessuno se la sente di iniziare applaudire. Qualcuno si asciuga le lacrime. E fra il pubblico c’è come una tacita intesa perché non si vuole rompere l’incantesimo creato da un Wagner «divino» che con i quattro titoli dell’Anello del Nibelungo (Der Ring des Nibelungen) continua ancora oggi a raccontare i mille volti del «puramente umano», con le sue vette e i suoi abissi: dalla passione al tradimento, dalla famiglia alla sete di potere, dalla fedeltà alla vendetta, dalle macchinazioni al rapporto con la natura. Fino a essere tutto assorbito in un amore narrato solo dalla musica e dai rimandi cristiani e insieme schopenhaueriani che riscatta le cadute e apre a un nuovo mondo. È quanto resta nella mente uscendo dal teatro affacciato sul fiume Elba dopo l’intera Tetralogia proposta per due volte. Oltre diciotto ore di musica scandite in quattro giorni (spalmati in una settimana) a cui si aggiunge almeno un’ora di applausi se si sommano quelli a conclusione di ogni opera ma anche gli scroscianti battimani – con relativa chiamata dei cantanti – alla fine di ogni atto. Ed è giusto così.

Il Ring targato Dresda è un trionfo di Thielemann, una delle migliori bacchette wagneriane contemporanee. La stampa tedesca ha già stabilito che il Semperopera abbia battuto il Festival di Bayreuth voluto dallo stesso Wagner dove la Tetralogia andò in scena per la prima volta in forma completa nel 1876. Sicuramente a Bayreuth l’Anello ha un impatto acustico differente perché il teatro sulla collina verde è stato concepito dall’irrequieta penna tedesca a misura delle sue partiture, con quel golfo mistico che crea un modo unico di sentire i drammi wagneriani. Ma ciò che esce dalla buca orchestrale di Dresda è un suono sorprendente, senza imperfezioni, in cui ogni passaggio è curato fin all’ossesso. Peccato che i due cicli non siano stati registrati per un’incisione discografica o per un dvd. Sarebbe stato uno di quei regali da ascoltare e da utilizzare anche per i confronti con altre esecuzioni.

Il direttore principale dell’opera di Dresda – che è anche direttore artistico a Bayreuth – sceglie come metro di misura l’equilibrio che sa tenere insieme gli opposti e quasi li attrae: il malinconico e il marziale, l’intenso e la lievità, i pianissimi e le portentose esplosioni dell’orchestra (accade, ad esempio, quando il teatro trema durante il risveglio di Brunilde nel terzo atto di Sigfrido). Tutto ciò attesta come il 58enne “timoniere” berlinese sia uomo dalle grandi linee e dai tratti emozionali. Il suo approccio all’Anello è più che ortodosso e si riverbera sulla regia: ogni cambio scena previsto nei libretti avviene a sipario abbassato, in modo da valorizzare l’orchestra che domina. E persino la marcia funebre di Sigfrido, nel terzo atto del Crepuscolo, si ascolta a tela calata così che il pubblico possa gustarsela appieno senza distrazioni.

Di solito in un complesso che esegue Wagner, e in particolare il Ring, vengono esaltati gli ottoni chiamati a imprese delicatissime. L’orchestra “di” Thielemann non ha solo ottoni così precisi da far stropicciare gli occhi (e le orecchie) ma è anche quella che ti colpisce per lo scintillio dei legni, a cominciare dai violoncelli, strumento caro a Wagner. Nella Tetralogia “sassone” svettano la conclusione dell’Oro del Reno; la cavalcata delle valchirie; il dialogo della foresta in Sifgrido; il passaggio corale con il celebre “Hoiho! Hoiho!” e la marcia funebre nel Crepuscolo. Giustamente più volte, sia dal podio sia dal palco, il vittorioso direttore rende omaggio ai “suoi” musicisti, quelli della Staatskapelle, a testimonianza del profondo legame instaurato che si trasforma in performance monumentali.

Il cast ha molte luci e qualche ombra. Due interpreti emergono su tutti: il basso ucraino Vitalij Kowaljow che dà volto e voce a un Wotan incredibile, calandosi nel conflitto interiore di un dio “eroico” e sconfitto; e il tenore tedesco Gerhard Siegel che si immedesima in maniera esemplare nei panni del nano Mime, padre adottivo e aguzzino di Sigfrido. È l’Oro del Reno il titolo globalmente più riuscito. Basti citare il brillante Kurt Streit (il dio del fuoco Loge) o l’arcigno Georg Zeppenfeld (il gigante Fasolt, ma sarà pure Fafner in Sigfrido e Hunding in Valchiria, confermandosi uno dei più possenti bassi wagneriani), passando per l’energica Christa Mayer (una vigorosa Fricka, e poi una commovente Erda in Sigfrido e una sicura Waltraute nel Crepuscolo). Ottima la prova del basso danese Stephen Milling che nel Crepuscolo è un Hagen aggressivo e del soprano russo Elena Pankratova ardente Siglinde (anche se le è più congeniale il ruolo di Venere in Tannhäuser). Ordinario l’Alberich del tedesco Albert Dohmen.

Tuttavia il Ring di Dresda avvalora una difficoltà comune ai teatri che oggi intendono proporre l’intera Tetralogia: è complicato trovare un Sigfrido e una Brunilde con timbri cristallini e capaci di affrontare maratone del genere. Al Semperoper il prode che non conosce la paura e che sarà destinato a morire per un gioco d’intrighi è prima lo statunitense Stephen Gould e poi l’austriaco Andreas Schager, sempre più lanciato nel panorama lirico. Entrambi non emozionano e Schager, con una voce a momenti algida, è spesso preda della sua stessa foga. Brunilde è la tedesca Petra Lang: Thielemann l’ha voluta a Bayreuth per essere Isotta nel suo Tristano, senza comunque conquistare i favori degli spettatori; a Dresda la propone come l’eroina che si immola per amore e per restituire al Reno l’oro “maledetto”, emblema di dominio. Lang è più a suo agio nelle parti arcigne, da valchiria, ma non eccelle in quelle romantiche: senza sentimento l’Idillio di Sigfrido benché l’orchestra lo esegua superbamente; e arriva al termine del Crepuscolo troppo affaticata.

Ciò che si vede è didascalico. Gli allestimenti sono frutto di due anni di lavoro, dal 2001 al 2003, del regista tedesco Willy Decker. C’è tutto quello che ci deve essere: l’anello, la spada, le pozioni, la foresta, il fuoco, l’elmo (che è una bombetta dorata), la dimora celeste (ma il Walhalla sembra la borsa di New York). Gran parte della Tetralogia è un gioco di teatro a teatro: sul palco compaiono lunghe file di poltrone della platea o cornici che evocano appunto un palcoscenico. Loge e le valchirie scendono su frecce rosse, mentre il drago che Sigfrido ucciderà per riconquistare l’anello ha i lineamenti di un disegno infantile. Perché, secondo il regista, l’eroe è una sorta di bamboccione che – non per nulla – è affiancato nel terzo titolo del Ring dal suo alter ego, un ragazzino. Certo non mancano momenti di forte impatto scenico: come il finale dell’Oro del Reno con gli dei che si avviano verso la fortezza su un “arcobaleno” bianco o la foresta di Sigfrido racchiusa in un quadro.

Ma quanto si ascolta è di dieci spanne superiore rispetto alla lettura di Decker. Alla fine qualcuno si domanda come sarebbe stato Thielemann alla guida della Berliner Philharmoniker. Non lo sapremo per una decisione forse dettata da pretesti politici (visto che la bacchetta è considerata di destra). Ma nel 2019 sarà possibile sentirlo per la prima volta sul podio del concerto di Capodanno a Vienna.