Letteratura. Vivere a Leningrado nei giorni della fame
Cadaveri per le strade di Leningrado durante l’assedio durato dall’8 settembre del 1941 al 27 gennaio del 1944
L’autore più citato è il Tolstoj di Guerra e pace, anche se è più probabile che al lettore venga in mente il Dostoevskij del Sottosuolo: quello, per intenderci, che già annuncia – e a volte perfino anticipa – la vertigine metafisica dei personaggi di Kafka. Non per niente, il protagonista di Leningrado. Memorie di un assedio, capolavoro ritrovato di Lidija Ginzburg (a cura di Francesca Gori, Guerini e Associati, pagine 188, euro 16,00, in libreria da domani), è designato solamente da una lettera, N, quasi ad accentuarne la parentela con lo Joseph K. del Processo. Entrambi sono prigionieri di un meccanismo disumano e implacabile, sennonché quella che in Kafka è allegoria qui è invece cronaca, sia pure redatta in un prosa di inconsueta densità poetica. Mai tradotte finora in Italia, le Memorie di un assedio rimasero a lungo sconosciute anche in Unione Sovietica.
La prima pubblicazione in rivista risale al 1984, agli albori dellaperestrojka, mentre quella in volume arriva solo nel 1990, lo stesso anno della morte dell’autrice. Lidija Ginzburg era nata a Odessa nel 1902, ma aveva legato la sua esistenza alla città di Leningrado fin da quando vi si era trasferita all’età di vent’anni per intraprendere gli studi di storia dell’arte. Ben presto si era trovata a essere osteggiata non solo per le sue origini ebraiche, ma anche per la sua appartenenza a una generazione di intellettuali poco propensi ad accettare passivamente la retorica del regime staliniano. Nessun richiamo al patriottismo si trova, del resto, in questo resoconto del terribile assedio in cui Leningrado fu stretta dalle truppe tedesche per novecento giorni, fra il settembre del 1941 e il gennaio del 1944. Un’osservazione spietata della quotidianità, semmai, talmente precisa da sconfinare nell’allucinazione. Più ancora di N, infatti, è la fame la figura principale delle Memorie di un assedio . Dapprima una «fame sistematica», spiega Lidija Ginzburg, che differisce dalla carestia «elementare e caotica» sperimentata durante la guerra civile.
Anziché trangugiare «ogni genere di cose strane», gli abitanti di Leningrado sanno di potersi aspettare ogni giorno «gli inesorabili 125 grammi di pane, una ciotola di zuppa e porzioni di kaša della grandezza di un piattino». E proprio la kaša diventa l’ossessione di N e degli altri assediati, che con l’avvento della borsa nera cercano di procurarsi ingredienti sempre più improbabili per preparare la pietanza più caratteristica della cucina russa: «Era possibile comprare cime di radici, un bicchiere di miglio o dei piselli, incredibilmente cari e difficile da trovare, ma era comunque possibile». Notazioni come questa si ripetono con insistenza nel racconto di Lidija Ginzburg. Quasi del tutto assenti, al contrario, le osservazioni relative all’andamento dei combattimenti, di cui si percepisce un’eco ulteriormente affievolita dalla «distrofia alimentare» che spadroneggia in città. Alter ego maschile dell’autrice, che per sopravvivere aveva dovuto accontentarsi di un modesto impiego in una redazione radiofonica, N dovrebbe essere uno di quegli intellettuali che non si interessano «al cibo in quanto tale, ma soltanto ai suoi risvolti psicologici: conforto, riposo, conversazione amichevole (accompagnata da un bicchiere di vodka), il progetto di cena con una ragazza». Anche per lui, tuttavia, il «trauma della fame» si trasforma in ansia inestinguibile, in spossatezza paralizzante alla quale prova a reagire nei modi più assurdi, come «la corsa incessante da un luogo all’altro, con la paura di perdere qualcosa », oppure sviluppando «un sentimento più immediato, quello dell’esasperazione».
Durante l’assedio il tempo si dilata. È «un tempo vuoto, ma non libero», che appare «rovesciato», in una confusione irrimediabile tra passato e presente: «Il tempo smisurato del pranzo, la permanenza rituale nel rifugio. Una condizione di assenza di libertà e di negazione dei valori umani, alla quale si sfuggiva soltanto partecipando in prima persona alla guerra». Nei Racconti di Sebastopoli , all’inizio della sua vicenda di narratore, il giovane Tolstoj aveva dato voce a uno stato d’animo non troppo dissimile, che però non era ancora segnato dall’assoluto spaesamento del soggetto nei confronti di sé stesso. Per questo occorre arrivare a Dostoevskij, appunto. Per questo occorre intuire Kafka. Il titolo originale del libo insiste non tanto sull’assedio, ma sull’«uomo dell’assedio», introducendo una sfumatura che si sarebbe tentati di estendere all’intera crisi del Novecento. N non agisce, se non raramente. Di norma, si limita al ruolo di spettatore al cospetto di una pantomima incomprensibile. Sono gli spaccati della vita d’ufficio, dove ci si ostina a praticare piccole meschinità rese crudeli dall’incombere della fame. E sono le descrizioni delle abitudini introdotte dall’assedio, a partire dall’assuefazione alle code. «Una coda è un insieme di persone che fanno parte di una comunità condannata all’ozio e all’isolamento », argomenta Lidija Ginzburg in pagine nelle quali si riconosce una consonanza con l’Elias Canetti di Massa e potere. In quel consesso provvisorio, radunato per la distribuzione di una qualsiasi razione, la conversazione casuale diviene «un modello di passioni ed emozioni: amore e vanità, speranza e rabbia trovano in essa un’incarnazione trasparente».
Secondo volume della collana “Narrare la memoria”, realizzata da Guerini e Associati in collaborazione con Memorial Italia, questo di Lidija Ginzburg è un libro nel quale la sostanza storica degli avvenimenti è osservata in modo così ravvicinato da assumere un inatteso significato simbolico. Leningrado diventa il corrispettivo reale della «Città assediata» immaginata dal poeta polacco Zbigniew Herbert (1924-1998) in uno dei suoi testi più famosi. Anche in questo caso la tragedia è ripercorsa nella prospettiva del cronista, mentre la «perdita del senso del tempo» si diffonde come un’epidemia e «ci è rimasto solo il luogo». Rovine ovunque e, insieme, il timore che le rovine vadano perdute. «Ma la difesa continua e continuerà fino alla fine», scrive Herbert: «e se la Città cadrà e se ne salva uno / lui porterà in sé la Città lungo le vie dell’esilio / lui sarà la Città». Esiliata in patria, Lidija Ginzburg è stata la testimone di questa sopravvivenza per la città che, un anno dopo la morte dell’autrice di Memorie di un assedio, ha riconquistato l’antico nome di San Pietroburgo.