Agorà

Storia. Vita nel Medioevo, la cura dell’acqua e il corso delle cose

Antonio Musarra giovedì 4 luglio 2024

Miniatura del Tacuinum Sanitatis Codex Vindobonensis Series Nova 2644, conservata presso la Biblioteca nazionale Austriaca di Vienna

«Chiare, fresche et dolci acque», cantava il poeta, «ove le belle membra pose colei che sola a me par donna». Bene: immaginate un modo in cui tale condizione rappresentava, sovente, un lusso. Le città medievali necessitavano di acqua. Acqua da bere, acqua per cucinare, per lavare i panni, per produrre tessuti, ammorbidire i pellami, sciacquare le tinture, azionare i mulini. Nell’Italia delle città, il problema dell’approvvigionamento idrico era all’ordine del giorno.

Sul finire dell’età imperiale, la maggior parte dei centri urbani mediterranei si era dotata di un sistema di conduzione e di distribuzione delle acque. La contrazione demografica dei primi secoli del Medioevo ridusse notevolmente il fabbisogno idrico, facendo cadere in disuso diverse strutture. L’uso di recarsi alle terme cadde nel dimenticatoio. Vasche e fontane divennero più rade in favore di un ritorno all’utilizzo di pozzi e sorgenti. Gli undici acquedotti romani smisero di funzionare a pieno regime. Lo stesso fenomeno si nota in Gallia, come mostra il caso di Pont du Gard, trasformato in strada, in Britannia o nei territori dell’impero germanico. Bisognerà attendere il IX secolo perché le tecniche d’ingegneria idraulica in uso nell’antichità comincino a essere recuperate. Lentamente, si assiste, infatti, alla costruzione (o alla ricostruzione) di nuovi impianti, generalmente a opera di monasteri. È solo dal XIII secolo, tuttavia, col definitivo assestarsi di una civiltà che potremmo definire pienamente cittadina, che prendono forma grandi progetti. Lavatoi e fontanoni tornano a riempire le piazze. In qualche caso, con enormi difficoltà, dovute alla posizione sopraelevata dei siti e all’aridità del sottosuolo. È il caso, ad esempio, di Perugia, che, alla metà del secolo, decide di realizzare un’impresa eccezionale: la costruzione di un imponente acquedotto sostenuto da un centinaio di arcate. Conclusa nel 1278, l’opera consentirà di convogliare le acque all’interno delle mura, sino a raggiungere la Fontana Maggiore di Piazza Grande.

L’acqua corrente, dunque. In qualche caso, deviata nelle abitazioni di signori e notabili. Su tale ripresa ha un peso l’ininterrotta tradizione delle campagne, dov’essa seguita a essere utilizzata in ambito agricolo o artigianale. I mulini ne sfruttano la potenza, costellando il paesaggio suburbano. Le tecniche del mondo classico sono riscoperte e adattate. Il patrimonio idrico comincia a essere tutelato giuridicamente. La sua amministrazione, tuttavia, è demandata ai poteri locali. È la città, a ogni modo, centro di produzione industriale, a catalizzarne l’uso. La richiesta raggiunge proporzioni considerevoli. Non a caso, iniziano a manifestarsi i primi fenomeni di “inquinamento”: gli scarichi domestici, quelli artigianali, le acque sporche di tintori e lavandai accrescono il rischio sanitario.

Non è naturalmente soltanto l’acqua dolce a farla da padrone. Quella salata non è da meno. Così come l’età imperiale aveva guardato al mare quale principale mezzo di collegamento, il basso Medioevo vi fa ritorno per ragioni di sostentamento o per incrementare i profitti. Città come Amalfi, Napoli, Genova, Pisa o Venezia – quelle che un tempo chiamavamo repubbliche, forse in malo modo – fondano sul mare la propria economia, impegnandosi nella costruzione di un network di relazioni di lunga distanza. Al contempo, sviluppano nuove tecniche, favorendo il passaggio dalla navigazione astronomica a quella stimata, grazie all’introduzione della bussola, della carta nautica, delle tavole di martelogio. Tra terra e mare si sviluppa un rapporto di stretta interdipendenza. Le grandi abbazie fruiscono di prodotti provenienti da lontano; in qualche caso – come a Cava de’ Tirreni – allestendo una piccola flotta. La gestione del porto diventa essenziale. A Genova, la magistratura deputata al suo funzionamento – dunque, al funzionamento del cuore economico della città – è la stessa che sovrintende all’acquedotto, a dimostrazione di quanto l’acqua, salata o meno che fosse, sia ritenuta importante. Da essa, a ogni modo, è necessario anche difendersi. Venezia, la città che sorge col mare, e che sul mare ha costruito la propria identità, vive costantemente questo problema. Il sito che la ospita, lontano dalla terraferma, circondato da paludi, canneti e boschi melmosi, soggetti a progressive bonifiche, ne nutre e protegge gli abitanti, anche se a prezzo di molte fatiche. Non passa giorno ch’essi non tentino di combattere l’eccesso di sedimenti trascinato dai corsi d’acqua.

Tutto ciò non fa che favorire la riflessione. Si muove il mondo delle lettere. Gli intellettuali discettano sulla natura delle acque: fredde, umide, dai colori cangianti, pesanti, corpulente, salate. «Mare» – ricorda Isidoro di Siviglia – «est aquarum generalis collectio». Ci si interroga sulla salinità. Un fatto inspiegabile, attribuito da Adelardo di Bath al calore rilasciato dalle stelle attraversando la cosiddetta “zona torrida”. Del resto, non era, forse, vero che, asciugandosi al sole, l’acqua del mare si trasformava in cristalli? Ma vi era anche chi, come Alexander Neckam, riteneva che essa derivasse dallo scioglimento di enormi montagne di sale sottomarine. L’acqua, insomma, era al centro di molti pensieri. Il 20 gennaio del 1320, a Verona, nella chiesa di Sant’Elena, Dante discetta della «forma aque et terre», interrogandosi sulla disposizione dei quattro elementi, che si credeva ordinati in sfere concentriche con la terra al centro. È il Sommo Poeta, del resto, a lasciarci una delle più belle descrizioni del Mediterraneo del suo tempo: «La maggior valle in che l’acqua si spanda», / incominciaro allor le sue parole,/ «fuor di quel mar che la terra inghirlanda, /tra’ discordanti liti contra ‘l sole / tanto sen va, che fa meridiano / là dove l’orizzonte pria far suole» (Par. IX, 82-93). Che potrei parafrasare: la maggior valle in cui l’acqua si espande, al di fuori di quel mare che circonda tutta la terra (l’Oceano), cioè il Mediterraneo, si estende tanto fra i due litorali opposti (Europa e Africa), in senso contrario al corso del sole (e, cioè, verso est), che raggiunge i 90° gradi di latitudine. In realtà, l’estensione del Mediterraneo è di 42° ma possiamo perdonarglielo….

Questo è, dunque, l’approccio del mondo medievale all’acqua, in tutte le sue forme: dolce e salata, fluviale, lacustre, marittima. Per non parlare di quella pluviale, necessaria per i campi e il fabbisogno quotidiano. Un approccio complesso. Essenziale, nella misura in cui la sua carenza rischiava di mettere in pericolo la possibilità stessa d’una convivenza umana. Di tutto ciò, il Medioevo è consapevole, e fa di tutto per mantenere con l’acqua una relazione vitale. Interrogarsi sul modo in cui chi ci ha preceduto si è posto il problema della sua gestione – è quanto un consistente gruppo di esperti si appresta a effettuare a L’Aquila, nella seconda edizione del Festival delle Città del Medioevo, curato da un medievista del calibro di Amedeo Feniello – non può che renderci maggiormente consapevoli del valore d’un bene universale.