Non è un virus, non un’epidemia o una pandemia. Ma l’allarme è scattato. Questa volta sulla carne rossa, soprattutto se lavorata. Sotto accusa sono finiti così hamburger e salsicce, salami, wurstel, insaccati. Per l’Organizzazione mondiale della sanità si tratta di cibi «cancerogeni». Così dopo l’allarme ebola e l’influenza suina, ecco un’altra uscita discutibile dell’ente internazionale. «Rientra nel filone dell’epidemiologia dei rischi. Sono ricerche in tema di salute che guardano solo ai rischi e che andavano bene 50 anni fa. Non riescono a spiegare perché Firenze, patria della bistecca, che con la sua stretta area metropolitana supera il milione di abitanti, abbia la più alta speranza di vita d’Italia. Perché Firenze e non la zona del Mugello? E perché allora, spaziando per la Penisola, non Sondrio? Semplice, perché le ricerche non guardano mai all’epidemiologia dei vantaggi. E allora sì, discutiamo della bellezza, dei teatri, della cultura, della gastronomia, del valore aggiunto di un territorio. Senza contare che c’è una regola generale: nelle città si vive di più che nelle campagne. Come si spiega? ». È incalzante il ragionamento che lo statistico e demografo Roberto Volpi presenta all’indomani dell’allarme Oms e a poche settimane dall’uscita del suo lavoro
Dall’Aids a Ebola. Virus ed epidemia al tempo della globalizzazione ( Vita e Pensiero, pagine 96, euro 10,00). «La speranza di vita degli italiani è passata dai 43 anni degli inizi del secolo agli oltre 70 degli anni Sessanta. E oggi questa soglia è stata superata dalla terra nel suo complesso – argomenta ancora Volpi –. Ed è cresciuta in particolare da quando i consumi di carne rossa con le sue proteine nobili, ma anche formaggi e vini rossi si sono diffusi fra la popolazione. ll vino rosso, diciamolo, è una medicina straordinaria, ricco di tannini che distruggono i grassi. Un bicchiere di vino a cena può essere un toccasana. È chiaro che l’eccesso – di carne rossa, come di vino – fa male, come fa male tutto l’eccesso. Ci vuole, in una parola, equili- brio. Ecco il punto». L’Organizzazione mondiale della sanità ci ha “abituati” invece ad allarmi che in alcuni casi si sono poi rivelati poco attendibili. Volpi punta il dito su due, piuttosto eclatanti: l’influenza suina del 2009 e l’ebola nel 2014. «Intendiamoci, certi virus non scherzano ed è giustificato il comportamento anche sopra le righe delle autorità sanitarie a fronte di un rischio epidemico – tiene a precisare lo studioso –. Meglio l’eccesso di allarme che non la sottovalutazione. Ma generare una psicosi può avere delle conseguenze disastrose – rilancia –. Al momento in cui fu dichiarata la pandemia, i casi segnalati nei 9 paesi toccati dall’influenza suina erano appena 141, di cui 91 negli Stati Uniti (uno solo mortale) e 26 nel Messico da cui era partita (7 mortali). In Italia il viceministro dichiarò l’allarme pandemico quando c’era una manciata di casi e nessun morto, ed ammettendo che avesse una “sintomatologia paragonabile a quella di una lieve influenza stagionale”. Si ordinarono 24 milioni di dosi di vaccino per un costo di 185 milioni di euro, ma si vaccinarono appena 900mila italiani. Si chiusero le scuole, si generò un clima di paura incredibile e ingiustificato».Lo stesso per ebola, la cui capacità diffusiva dell’infezione si è rivelata assai modesta. «Di fatto non si è mossa da Sierra Leone, Liberia e Guinea. E alla fine saranno 27mila i casi con 11mila morti, fra i 22 milioni di abitanti dei tre paesi, che – va sottolineato – sono agli ultimi posti nel mondo per povertà e per l’assenza di strutture sanitarie». Il responsabile di ebola per l’Africa dell’Oms aveva annunciato che si sarebbe potuto arrivare a 1,5 milioni di casi. «La verità – continua Volpi – è che abbiamo una definizione di pandemia che prescinde dai morti. Per scattare l’“allarme” è sufficiente che il virus abbia una novità. Forse bisognerebbe intervenire su questo e le istituzioni dovrebbero fare meglio il loro ruolo». Attraverso questi esempi si arriva al cuore del problema: «L’inarrestabile desiderio di proteggerci».Non sarà questo alla fine a «distruggerci »? Pensiamo al tema dell’abuso di antibiotici, come se fosse ormai proibito ammalarsi. «Se c’è un virus che promette un disastro, ci sono altri rischi di cui si parla meno, ma presentano altrettante problematiche – spiega Volpi –. E se da una parte ormai è lampante che l’eccessiva medicalizzazione può avere effetti collaterali con batteri sempre più resistenti e invincibili, dall’altra non si fa che invocare antibiotici più potenti per stroncare i batteri. I medici somministrano e noi prendiamo medicinali. Ovviamente le aziende produttrici fanno il loro mestiere e non possiamo chiedere di non farlo. Forse le autorità dovrebbero fare di più il loro». In questi allarmi a finire sotto accusa è la globalizzazione: arma o debolezza? «La globalizzazione si sta salvando. Non so perché si stenti a coglierlo. È chiaro che nella globalizzazione c’è di tutto, ci sono sperequazioni immense. Ma la globalizzazione ha un vantaggio enorme: non lascia nessuno da solo. Almeno nel campo della sanità. Se c’è epidemia in Kenya, ci si preoccupa che arrivi in Europa, scattano procedure di emergenza e si blocca tutto. È senz’altro una molla egoistica di autodifesa quella che scatta. Ma si interviene. E funziona. E funziona a tal punto che la mortalità infantile è crollata ovunque e che la popolazione è cresciuta negli ultimi anni di due miliardi. Mi sembra che stiamo meglio, no?».