«Sono nato nel maggio 1944, mentre mio padre guidava il Quarto reggimento di fucilieri tunisini durante l’Offensiva del Garigliano. Gli giunse un telegramma in codice e fui nominato già alla nascita caporale onorario. La guerra mi attendeva e questo libro sulla guerra mi ha atteso per tutta la vita». A parlare è il francese Jean-Claude Guillebaud, per decenni sui fronti bellici come inviato speciale pluripremiato, dal Vietnam all’ex Yugoslavia, prima di una 'seconda vita' da saggista, opinionista ed editore, con libri che hanno lasciato il segno, compreso
Come sono ridiventato cristiano (Lindau). Poche settimane dopo la scomparsa del suo 'maestro' René Girard, Guillebaud pubblica
Le Tourment de la guerre ('Il Tormento della guerra', L’Iconoclaste), dedicato proprio al grande antropologo culturale credente. Una cavalcata personale fra ricordi, citazioni letterarie e meditazioni sulla speranza di superare la violenza che divora ancora, nel Terzo millennio, i destini delle nazioni.
Lei ricorda che la guerra non risparmiò neppure la civiltà greca, ancora idealizzata da molti. Questa scoperta l’ha colpita? «Mi sono interessato alle Guerre del Peloponneso per una ragione precisa: l’esasperazione verso chi continua ad additare le religioni monoteiste e il cristianesimo come primi responsabili storici della violenza. Le Guerre del Peloponneso, più di quattro secoli prima dell’era cristiana, furono il teatro di un’indicibile barbarie. L’associazione fra monoteismo e origine della violenza è una sciocchezza. Ogni credenza e ideologia, compreso l’ateismo, è minacciata da una potenziale patologia e follia interna. Per questo, la storia umana è interamente costellata di tragici appelli alla violenza ».
Una violenza che può sedurre tutti, compresi gli inviati di guerra… «Fra inviati, non se ne parla quasi mai. Ma anche chi è fermamente ostile alla guerra, com’era il caso in Vietnam per 9 inviati su 10 fra i circa 600 accreditati in modo permanente, non riesce mai a sfuggire completamente a questo fascino quasi infan- tile per la violenza e l’esultanza guerriera. Anch’io ne fui contagiato, osservando dappertutto in tante guerre persone rispettabilissime cedere a loro volta. Può durare un’ora, mezz’ora. E immediatamente dopo, si è disgustati di se stessi. Si prova vergogna. Ma non si può mai sopprimere del tutto quest’ambivalenza malsana fra disgusto e infatuazione. Oggi, mi sorprende che si parli così poco e sottovoce dell’infatuazione guerriera come movente dei giovani jihadisti europei che ingrossano il Daesh. Il politologo Olivier Roy è stato fra i pochi a ricordare questa ragione edonistica fondamentale. Rischiare di morire è per molti più eccitante che consegnare pizze».
Abbiamo smesso di ragionare seriamente sulla guerra? «Per secoli, la letteratura europea ha esaltato la guerra. E in confronto, l’odierno antimilitarismo è un fenomeno recente. La violenza continua certamente a sedurre le nostre società, come mostra l’enorme successo dei videogiochi guerrieri, ma non si può dire che ciò alimenti una vera riflessione pubblica e una diffidenza seriamente fondata. Per questo, scruto attentamente ogni segnale incoraggiante. In proposito, ad esempio, il movimento degli Indignati ha adottato come icone grandi figure pacifiste: Mandela, Martin Luther King, Gandhi. Spero sia la spia di una svolta in corso».
Quali autori consiglierebbe a chi vuol riflettere? «Innanzitutto, Tolstoj. Per preparare
Guerra e Pace, scritto mezzo secolo dopo i fatti, Tolstoj si documentò enormemente, visitando i campi di battaglia di Borodino. Qui, l’ex ufficiale d’artiglieria scoprì la barbarie assoluta di quella celebre battaglia in cui ogni limite fu superato. In una decina d’ore, caddero in 70 mila. Come si evince dalla sua corrispondenza, Tolstoj rimase sconvolto. E dopo queste ricerche, lanciò un movimento non violento con grande successo in Russia e ben oltre. Ciò gli valse pure le scomuniche della Chiesa Ortodossa, per antipatriottismo. Il giovane Gandhi scrisse al 'maestro' russo e la corrispondenza fra i due è magnifica. Semplificando, si può forse dire che Gandhi fu un prodotto di Tolstoj e che quest’ultimo fu un prodotto di Borodino. Si aprirono magnifiche prospettive. Un altro autore da rileggere assolutamente è lo svizzero Jean-Henry Dunant, divenuto pacifista in Italia, fra i cadaveri di Solferino. Mi ha commosso la sua reazione viscerale a quanto vide. Fondò la Croce Rossa, divenendo il primo Nobel per la Pace».
La sua Parigi è stata appena martoriata dal terrorismo. Un’occasione per riflettere? «Dopo 70 anni di pace apparente, in Europa si è diffusa l’illusione che ciò rappresenti una condizione in qualche modo normale. Invece, non dovremmo abbassare la guardia. I 130 morti del 13 novembre mi hanno sconvolto, ma ciò non deve paralizzare il nostro pensiero e le nostre azioni. Sotto i bombardamenti tedeschi, gli inglesi pagarono ogni notte un analogo tributo di vite, senza cedere. Dobbiamo rifiutare assolutamente la violenza e al contempo è urgente comprenderla. Come ci ha insegnato Girard, ogni società umana deve imparare a scongiurare la propria violenza. È forse la principale sfida che ci attende. Simone Weil diceva che occorre avere il coraggio di guardare in faccia i mostri che ci abitano».
Occorre un certo senso dell’equilibrio? «Sì, perché il rischio è di lasciarsi condurre verso reazioni capaci di mettere in pericolo gli stessi fondamenti democratici, finendo per dare ragione ai terroristi. Difendersi, in questi casi, è come avanzare su un crinale scivoloso. Occorre evitare di somigliare al nemico e di cedere alla reciprocità mimetica della violenza: un tema caro a Girard. Al contempo, riconosco che certe forme estreme di barbarie possono metterci alle corde, screditando l’idea di un pacifismo assoluto. Sotto il nazismo, a mostrarlo fu ad esempio il luminoso coraggio del teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, capace di mettere in sordina certi principi per rispondere alla voce della propria coscienza che gli chiedeva di opporsi a Hitler con ogni mezzo».