Calcio. Vinicio, i novant'anni anni del “re 'O Lione”
Luis Vinicio allenatore del Napoli nella stagione 1974-’75: arrivò 2° a due punti dalla Juventus
O’ Lione ruggisce ancora sotto il Vesuvio. E sono 90 anni anni ruggenti per Luis Vinicio, nato lo stesso giorno di Dino Zoff, il 28 febbraio. Ma un decennio prima, nel 1932, in Brasile, «a Belo Horizonte, la città degli italiani », dice con il suo inconfondibile accento brasilero. Laggiù, a Rio de Janeiro, i vecchi tifosi del Botafogo se lo ricordano ancora come il ragazzo del Metallusina, acquistato dal presidente Carlito Oscar per affiancarlo in attacco alla leggenda verdeoro “Manè Garrincha” e al bomber Dino Da Costa (che dal Botafogo passò alla Roma). E quel giovane stempiato, ma affascinante, dallo sguardo magnetico, felino e il bel portamento in campo e fuori, per i tifosi carioca diventò subito «Leão». Il «Leone», cuore impavido nella «batalha», che alla prima stagione realizzò 13 gol in 22 partite. E nella turnée dell’estate del 1955 che toccò «venti Paesi», convinse il “Comandante” Achille Lauro, padre patron del Napoli e sindaco della città, a rinunciare al sogno Da Costa per ripiegare su Vinicio. Mai “ripiego” fu più ben ripagato, e nonostante i 50 milioni di lire investiti, che però erano appena la metà di quelli serviti al Napoli per Hasse Jeppson: il bomber svedese preso dall’Atalanta, nel ’52, per la cifra record di 105 milioni di vecchie lire. E proprio Jeppson rappresentava l’ostacolo da superare per vestire d’azzurro il brasiliano. Per tesserare lo straniero Vinicio occorreva un parente italiano che lo rendesse “oriundo”. E così, dal cilindro magico di Lauro spuntò il nonno materno: Consalvo Abilio D’Amarante, manco a farlo apposta originario di Aversa. Nel lustro napoletano 1955-’60 Vinicio segna 69 gol in 152 partite e trova Donna Flora Piccaglia, brasiliana: ragazza conosciuta a Rio e poi ritrovata per caso in via Caracciolo. Colpo di fulmine e matrimonio nella Basilica di San Francesco di Paola nel 1957, con tutta Napoli accorsa a piazza Plebiscito a gridare «viva gli sposi!». Flora è la donna di una vita che gli ha dato i figli Mario e Marco, e che lo ha seguito nel suo nomadismo da calciatore (Bologna, Vicenza, Milano - sponda Inter -) e poi da allenatore, fino alla scelta definitiva di fermarsi a Napoli.
Ma scusi Vinicio, da brasiliano non ha mai sofferto di saudade?
Sì, eccome. C’è stato un periodo che con la mia famiglia stavamo un po’ Italia e un po’ in Brasile. Poi però ho deciso di sistemarmi qui. Abbiamo girato tanto con il calcio, ma Napoli è la città in cui ci han- no voluto più bene. Qui, l’affetto della gente, il clima, il cibo e la bellezza del paesaggio ci hanno sempre fatto sentire come a casa mia, a Belo Horizonte.
I brasiliani dicono: «Quando parliamo di Pelè ci togliamo il cappello, ma quando parliamo di Garrincha ci viene da piangere». È così anche per lei
Sì. Per me giovane calciatore giocare con Garrincha nel Botafogo è stato un onore. Era fantastico, aveva il pallone attaccato al piede, un dribbling dietro l’altro, immarcabile, spettacolare. Era cresciuto in favela senza un minimo di istruzione, aveva guadagnato tanto, ma non pensava mai al domani e così ha perso tutto, come tanti calciatori. Garrincha però era un buono, un generoso, alegria do povo, metteva allegria solo a vederlo giocare, e invece poi è morto triste e abbandonato.
È la fine dei grandi, come Diego Armando Maradona. Togliamoci subito il sasso: meglio Pelè o Diego?
Ho giocato contro Pelè, e nel suo tempo è stato il più grande, così come Maradona era il numero uno assoluto della sua era. Di grandi giocatori ne sono passati tanti, ma Pelè e Maradona stanno nella stessa categoria, quella degli insuperabili.
Da casa sua si vede il San Paolo, il giorno dell’inaugurazione, 6 dicembre 1959, il suo gol decise la partita: Napoli-Juventus 2-1. Poi la Juve quando guidava il Napoli in piena corsa-scudetto, stagione 1974-’75, si vendicò con uno altro storico 2-1...
È un gioco, cose che succedono. La Juventus è un bestia nera per tanti, anche del Napoli. Da sempre la Juve è la squadra più forte d’Italia, ma anche quella che ha la più grande capacità di “comandare” gli arbitri – sorride – . Quel gol maledetto lo segnò un ex, Josè Altafini. Così mentre io per la gente di Napoli resto “O’ Lione”, Josè da allora è diventato “O’ Traditore”... – sorride ancora –. Ma anche questo fa parte del gioco.
Nel gioco delle parti, anche Vinicio fece un gol dell’ex molto pesante: quello all’Inter di Helenio Herrera.
Era la mia ultima stagione (1967-’68) da calciatore al Lanerossi Vicenza e arrivato al Menti il “Mago” Herrera mi fe- ce spavaldo: «Toh Vinicio, ma giochi ancora?». E io finto umile: «Mister, si fa quel che si può». Vincemmo noi, con una mia doppietta! A fine partita andai a salutare i miei ex compagni nerazzurri nel loro spogliatoio... allora Herrera quando mi vide entrare si nascose nel bagno. – sorride divertitissimo – . Uno spettacolo.
Smesso di giocare ha cominciato da allenatore all’Internapoli, club di quartiere in cui ha lanciato due talenti: Pino Wilson e Giorgio Chinaglia, futuri eroi dello scudetto della Lazio del ’74.
Wilson era un libero molto intelligente, leggeva benissimo la partita e con largo anticipo le mosse degli avversari. Chinaglia un testardo, voleva fare di testa sua, ma è bastato appenderlo una sola volta al muro che si è messo in riga e ha cominciato a giocare da grande attaccante quale poi è stato nel corso della sua bella carriera finita a New York, con i Cosmos.
Anche lei passa per un grande rivoluzionario della panchina, con quel calcio totale misto a “futebol bailado” che ha ispirato il libro omaggio di Alfonso Esposito, Il mito che insegna: il Napoli di Vinicio.
Quel tipo di calcio, che seguiva l’evoluzione tattica degli olandesi e non solo, agli inizi degli anni ’70 lo praticavano in tre, il sottoscritto, Viciani alla Ternana e Castagner al Perugia. Io lo trasmisi a quel Napoli che quando lo presi era un gruppo di indisciplinati, ma poi aiutato da capitan Juliano divenne una squadra unita e imbattibile. Marcatura a zona, ripartenze veloci e manovre spettacolari. Perdemmo lo scudetto per due punti ( Juventus 43, Napoli 41) ma quella formazione la considero un piccolo capolavoro.
Un capolavoro fu anche salvare l’Avellino del vulcanico presidente Sibilia e portarlo all’8° posto, piazzamento mai più ottenuto dal club irpino.
Sibilia all’inizio voleva impormi la formazione, ma l’ho sistemato subito: l’ho misi fuori dallo spogliatoio e i risultati mi diedero ragione. Salvezza, partendo da -5 punti di penalizzazione, per il calcioscommesse, e quello fu anche l’anno del terremoto dell’Irpinia (1980). La stagione seguente l’8° posto. Auguro che qualcuno in futuro ad Avellino possa fare meglio di me, ma non sarà facile...
Ultima annata in panchina alla Juve Stabia, portata in salvo in C e poi Vinicio sparisce da tutti i campi e da tutti gli schermi. Ma cosa le è successo?
Mi sono dovuto sottoporre a parecchie operazioni. Prima le ginocchia, poi l’anca. E allora, siccome quando allenavo curavo in prima persona anche la preparazione fisicoatletica della squadra, ho pensato: non potendo più correre assieme ai ragazzi che senso ha scendere ancora in campo? E così ho chiuso.
Ha più rivisto un Vinicio tra gli allenatori in circolazione?
Vedo tanti allenatori che si affannano sul “progetto” che poi vuol dire pensare prima di tutto ai soldi dell’ingaggio, e quelli rispetto ai miei tempi ne girano troppi e spesso rovinano anche il gioco. Mi piace Gasperini, perché ha avuto il coraggio di rimanere ad allenare in provincia e la sua mano nell’Atalanta si vede, una squadra che cerca sempre di fare un bel calcio.
Anche il Napoli di Luciano Spalletti pratica un buon calcio, possibile sognare un terzo scudetto?
Glielo auguro di cuore. Sarebbe una cosa molto bella per Spalletti, il suo primo scudetto personale. Ma soprattutto sarei felicissimo per la città: Napoli merita di vivere una festa che sta aspettando dai tempi di Maradona... E anch’io vorrei festeggiare.
L’anno prossimo festeggia 90 anni anche Corrado Ferlaino, il presidente dei due scudetti e della Coppa Uefa, e anche quello che lo volle allenatore del Napoli.Vi sentite ancora?
Ogni tanto ci sentiamo. Mi portò al Napoli di notte in barca da Capri... C’era di mezzo una “raccomandata”, arrivata quasi fuori tempo massimo, che mi liberava dalla clausola con il Palermo con cui avevo firmato... Abbiamo tante storie da raccontarci io e Ferlaino e spero di riabbracciarlo il 28 febbraio al pranzo del mio compleanno.
In questi trent’anni lontano dagli stadi si è concesso a qualche altra passione?
La mia più grande passione è sempre stata coltivare la famiglia, e la mia mi ha permesso di vivere bene, in serenità, anche nelle tante domeniche passate senza calcio.
Quanto ha contato la fede nella sua lunga vita?
Ho avuto una forte formazione cattolica. La mia infanzia a Belo Horizonte l’ho trascorsa passando dall’educazione dei gesuiti a quella dei salesiani dell’Istituto san Giovanni Bosco. E qui ho appreso l’importanza della cultura e del rispetto delle regole. E poi c’erano undici campi di calcio: è lì che ho imparato a giocare.
Concludendo, una donna una vita: Donna Flora. Qual è il segreto dei vostri 64 anni insieme?
Volersi bene con tutto il cuore e vivere ogni giorno assieme come se fosse il primo. Flora è stata più di un allenatore in casa, una perfetta donna di famiglia e una madre molto attenta, sono stato molto fortunato. Essere ancora qui con lei, è il più bel regalo di compleanno.