Letteratura. Manuel Vilas, la Spagna nella storia di un uomo solo
Lo scrittore spagnolo Manuel Vilas
«Magari si potesse misurare il dolore umano con numeri chiari e non con incerte parole. Magari ci fosse un modo di sapere quanto abbiamo sofferto, e il dolore avesse materia e misura». È l’incipit di In tutto c’era bellezza , di Manuel Vilas, un fenomeno letterario e miglior libro del 2018 in Spagna, pubblicato da Guanda nella traduzione di Bruno Arpaia (pagine 410, euro 19). È la lettera di un naufrago, la richiesta di aiuto, intima e poetica, di un cinquantenne fra le rovine della propria vita. «Tutto il mio passato andò a picco quando mia madre fece lo stesso di mio padre: morire», annota Vilas, fra i maggiori poeti della sua generazione, autore di una trentina fra raccolte poetiche, romanzi e saggi. «Quando cominciai a scriverlo – ricorda – era maggio 2014. Avevo 52 anni, avevo da poco divorziato, lasciato il mio lavoro di insegnante, la città in cui avevo vissuto e avevo gravi problemi con l’alcol. La morte di mia madre fu scatenante, mi sentivo doppiamente orfano, come figlio e come padre di due adolescenti. La madre – osserva – è il grande mistero della vita. Viviamo in un mondo che ci fa dimenticare molte cose, anche chi ci ha dato l’identità, l’umanità. Indagare sulla mia vita e quella dei miei genitori era il modo di ricostruire il passato perché non andasse perduto. Decisi di farlo con gli unici strumenti che ho: la parola e la letteratura ».
Lei scrive: «La memoria è una luce prodigiosa quando abbiamo perduto tutto ciò che avevamo ». Qual è il suo primo ricordo?
Ordesa, un paesaggio montuoso sul versante spagnolo dei Pirenei, dove andavamo con i miei con la Seat 850 da Barbastro, non molto distante, dove sono nato. È un’immagine potente: mio padre che impreca per una ruota bucata. Io, a 7 anni, che scendo dall’auto e mi trovo davanti le montagne meravigliose.
Dice: «Volevo un libro sulla verità, un libro che dicesse la verità». Fino a che punto è un’autobiografia?
Ogni essere umano si interroga sulla propria identità. Ma quando hai superato i 50 anni e sei ormai orfano, la domanda non ammette menzogne, anche se tutta la verità a volte può essere indicibile anche a se stessi. Questo libro narra fatti della mia esistenza, la mia storia familiare, ma per offrirli al lettore, perché possa narrare la propria. Ed è forse questa la ragione del suo incontro col pubblico.
«La Storia è anche un corpo con rimorsi. Ho 52 anni e sono la storia di me stesso». Riflette molto sulla colpa, senza farsi scudo di personaggi…
La colpa per me è una forma appassionata, intensa, di memoria, non un problema di morale. Se ti senti innocente, tendi a di- menticare. E con i figli riproduci i grandi malintesi avuti con i tuoi genitori. Questo libro è una lettera d’amore, non un atto di vanità o rivalsa. Ricorda che bisogna dire le cose in vita, perché tutto ciò che è taciuto non potrà essere detto domani, quando loro non ci saranno più. Esplora una dimensione universale della condizione umana, un eterno ritorno di cui la letteratura è piena d’esempi, da Kafka con la Lettera al padre a I fratelli Karamazov .
La famiglia di origini umili che ritrae somiglia molto a quelle dell’Italia di un decennio prima, con le gite in Fiat 600, la prima tv e le promesse di futuro… Cos’è stato delle sue ossessioni e aspirazioni?
In Spagna dopo il franchismo e, prima, nel-l’Italia del dopoguerra la generazione dei nostri genitori cominciò a consolidarsi come classe media e a costruire lo stato di benessere. L’ossessione era tirare avanti, il lavoro duro per uscire dalla povertà, i beni materiali. Con la crisi globale del 2008, la classe media si è impoverita, ha visto peggiorare le condizioni di lavoro, di vita, le aspettative frustrate delle future generazioni, molto meglio formate.
Prova nostalgia per il bel tempo andato?
Certo. Allora si costruivano libertà politiche, individuali, la musica pop, c’era un clima di allegria storica oggi spento, sebbene la situazione economica e sociale fosse di gran lunga peggiore. A differenza di mio padre, io sono andato all’università e lo studio, la perseveranza, mi ha liberato dal ripetere il destino sociale dei miei genitori. Il paradosso è che oggi dovremmo essere più felici e non lo siamo. Abbiamo accesso alla tecnologia, che in teoria dovrebbe migliorare la nostra vita. Ma ne siamo dipendenti e non so se l’enorme potenziale ci abbia reso migliori persone o più felici. Temo di no.
«Il problema del Male è che ti converte in colpevole quando ti tocca». Lei confessa di essere stato vittima di abusi, a 8 anni, da parte di un sacerdote. Perché ha rotto solo ora il silenzio?
Quando li ho subiti era tabù parlarne, non c’era compassione per le vittime. Per lo shock mi rifugiai nella negazione, è un trauma che mi è costato molto superare. Ora è cambiato il contesto sociale, anche grazie alle tante testimonianze, in tutto il mondo. Il bambino che fui, alla fine ha potuto riconoscere ciò che avvenne, parlarne.
Per lo scrittore Fernando Aramburu, In tutto c’era bellezza è una resa dei conti con il suo fortunato Patria: è d’accordo?
Sì, entrambi nascono dal desiderio di esplorare la storia di Spagna dall’ambito familiare. Lui lo fa raccontando l’odio ancestrale fra due famiglie basche, a partire dal terrorismo dell’Eta, io da un ambito più sentimentale. Ma entrambi radicano nelle emozioni, una necessità espressa da molta letteratura attuale, forse perché finora ci siamo occupati troppo di politica. La famiglia, tradizionale o nelle diverse declinazioni, continua a essere la grande costruzione, il motore universale.
Vilas lei voleva essere una rockstar prima di scrittore: quanto rock c’è nel suo ultimo romanzo?
Non tanto, almeno non quanto in Lou Reed era español, il libro che scrissi nel 2013 alla morte dell’artista, che lasciò un enorme vuoto. La musica pop mi ha formato quanto la letteratura, e sono da sempre melomane. Per questo il narratore del libro battezza con i nomi di compositori i suoi esseri amati. Mia madre, più drammatica, è Wagner, mio padre Bach, gli zii Monteverdi…