Letteratura. Vila-Matas: «Nei sogni si apprezza la realtà»
Lo scrittore Enrique Vila-Matas / Basso Cannarsa
Come tutte le persone molto spiritose, Enrique Vila-Matas si presenta con una maschera di estrema serietà. «Non riesco a capire questa storia dell’aggettivo vila-matiano, che alcuni iniziano a usare come sinonimo di “strampalato” o “bizzarro” – dice –. Io mi limito a raccontare il mondo così come lo vedo. Ci sono fatti che ad altri sembrano banali e per me sono invece eccezionali. Ma a volte succede anche il contrario. Come quella volta del palazzo crollato... ». Ecco, bastano due battute e siamo già nel pieno di un suo romanzo. Un problema per Mac, per esempio, appena edito da Feltrinelli nella versione di Elena Liverani (pagine 282, euro 19,00). «Tutti quelli che incontro fanno finta di aver letto i mie libri – spiega l’autore, nato a Barcellona nel 1948 – e allora ogni tanto mi diverto a metterli alla prova». Mac, il protagonista, è il tipico lettore accanito che ha la smania di trasformarsi in scrittore. Per il suo esordio, sempre rinviato, prende a modello l’opera di un suo vicino di casa, il sempre più enigmatico e sfuggente Sánchez. Il romanzo che Mac intende imitare (o forse addirittura riscrivere) si intitola Un problema per Walter e la sua struttura corrisponde, capitolo per capitolo, a quella di un libro che lo stesso Vila-Matas pubblicò nel 1988, Una casa para siempre («In italiano non è mai stato tradotto – rassicura –, si consideri già perdonato»).
Potrebbe essere uno scherzo, magari una provocazione. È invece una dichiarazione di poetica. «Al contrario della nostalgia, che è ripiegata sul passato, la ripetizione guarda sempre in avanti, al futuro – afferma Vila-Matas –. Purché non si limiti a riprodurre l’esistente, però, e si sforzi di modificarlo. Da scrittore, sarei il primo ad annoiarmi se decidessi di rifare un mio libro. Ma il caso di Un problema per Mac è differente. Il procedimento è simile a quello di un pianista intento a elaborare le infinite variazioni di un tema musicale. Bisogna esserci portati, è evidente, e io penso di esserlo. Il narratore, per me, è qualcuno che, non accontentandosi di quello che accade o che gli viene riferito, prova il bisogno di modificarlo. No, non per travisarlo. Semmai per capirlo meglio. A me succede anche con il telegiornale. Ascolto una notizia, intuisco i motivi per cui viene presentata in un certo modo, la rielabora nella mente e solo a quel punto mi rendo conto di che cosa stiamo parlando». Vincitore di premi prestigiosi (il Rómulo Gallegos in Venezuela, l’Herralde in Spagna, il Médicis étranger in Francia, il Von Rezzori in Italia), Vila-Matas ha costruito nel tempo un personalissimo labirinto narrativo nel quale personaggi e situazioni si inseguono e corrispondono, in un continuo rispecchiamento tra realtà e invenzione. «Il punto – confessa – è che all’inizio sapevo di che cosa scrivere, avere paura di non avere nulla da raccontare. Mi guardavo intorno alla ricerca di qualche spunto e avevo l’impressione di trovarne tantissimi. Episodi che a me risultavano buffi, curiosi, sorprendenti, anche se di per sé potevano apparire consueti. Autobus e tram, in particolare, mi hanno sempre dato grandi soddisfazioni».
La modestia, uno dei racconti ai quali Vila-Matas è più legato, è nato proprio così. «Ero in giro per Barcellona – ricorda – e vicino a me c’era una donna che parlava con qualcuno al telefono. Dovevano incontrarsi e lei non sapeva come farsi riconoscere. “Non sono bella né brutta”, diceva. È un’espressione molto comune, questo ni guapa ni fea, ma all’improvviso mi sembrò che quelle parole rivelassero qualcosa di straordinario. D’istinto, ho avvertito la tentazione di seguire la donna per scoprire come sarebbe finito l’appuntamento, ma ho preferito che andasse per la sua strada e ho immaginato la storia che ora si legge in Esploratori dell’abisso ». La rivelazione o, più esattamente, l’epifania è un evento ricorrente negli scritti di Vila-Matas. «Ed è anche uno dei tanti debiti che ho contratto nei confronti di James Joyce – aggiunge –. In Dublinesque, il mio romanzo in cui la sua figura è più presente, ho voluto provare a riprodurre una delle epifanie più importanti dell’Ulisse: quella in cui l’autore si sente osservato da uno dei suoi personaggi. Ho architettato tutto con cura, evocando l’immagine del giovane Samuel Beckett che emerge dalla nebbia in un cimitero. Ero convinto che mi sarei spaventato moltissimo, ma non ho provato nulla di particolare. Il che non significa che qualcosa non sia accaduto, intendiamoci». Per illustrare meglio questo equilibrio delicatissimo, Vila-Matas torna a un ricordo d’infanzia. «Da bambino – racconta – mi capitava spesso di giocare a calcio da solo giù in cortile. Ma una notte, in sogno, attorno a me non c’erano più i palazzi del mio quartiere a Barcellona, ma i grattacieli di New York. Ero euforico, entusiasta, e quell’allegria restò con me anche al risveglio. Mi convinsi che, se mai avessi visitato New York, avrei ritrovato intatta quella gioia. Ho vissuto per molti anni in questa convinzione, fino a quando a New York sono andato veramente e non ho provato nulla di simile all’appagamento del sogno. Ma mentirei se sostenessi di essere rimasto deluso. Nonostante tutto, New York è una città che amo molto, nella quale mi sento bene, a mio agio».
Non sempre occorre passare per il filtro del sogno. «Una delle situazioni più letterarie in cui mi sia mai trovato – sostiene Vila-Matas – si è verificata nel mio studio, quando un pappagallo è rimasto intrappolato tra gli scaffali della libreria. L’uccellino che si lamenta, la finestra spalancata e io, lì in mezzo, che cerco di scrivere. Ha tutta l’aria di un’allegoria, eppure non c’è nulla di inventato. Capisce che cosa intendo quando dico che la realtà può essere vila-matiana? ». A proposito: non avevamo una storia in sospeso? «Ah, sì – risponde Vila-Matas – e in senso abbastanza letterale. Dunque, c’è questo mio amico, scrittore anche lui, che un bel giorno vede crollare il palazzo accanto al suo. Per La Vanguardia, il quotidiano di Barcellona, è una notizia da prima pagina, con tanto di fotografia nella quale si distingue nettamente la scrivania del mio collega, che la catastrofe ha esposto allo sguardo dei passanti. Non le sembra uno spunto magnifico? Ma niente, lui non ne ha ricavato nemmeno una riga. In fin dei conti, sarebbe stato meglio se fosse successo a me».