PresaDiretta. Viaggio tra le vene aperte dell'Amazzonia
Una macchina viaggia sulla BR 364, un’autostrada interstatale che taglia in due la Rondônia, uno stato del Brasile situato all’estremo ovest del Paese. La Rondônia è una regione amazzonica, grande all’incirca come l’Italia, che fino agli anni ’70 era un’unica inviolata foresta pluviale, mentre oggi, dall’arrivo massivo dell’agricoltura negli anni ’80, si ritrova con circa un terzo della vegetazione in meno e viene costantemente disboscata.
La macchina sulla BR-364 è quella di PresaDiretta, che ha attraversato il Brasile per raccontare come gli incendi e il sistematico disboscamento illegale stiano vincendo la partita contro l’Amazzonia. PresaDiretta ha percorso migliaia di chilometri attraverso immense distese brasiliane di campi dedicati alla monocoltura della soia e ai pascoli per i bovini, dove un tempo c’era la foresta pluviale, raccontando il tutto in un reportage intitolato Guerra all’Amazzonia, che andrà in onda domani sera alle 21.20 su Rai 3, per provare a denunciare il silenzio generale dentro al quale sta rapidamente morendo la foresta amazzonica, mentre molti mercati sono invasi da legno, carne e soia prodotti deforestando il polmone verde del pianeta. L’inviato Marcello Brecciaroli ha seguito gli arresti per incendio doloso della polizia ambientale, ha intercettato il traffico illegale di legname e ha seguito la rotta della soia fino ai porti fluviali dai quali parte, diretta verso il resto del mondo.
Tutto inizia a 100 chilometri dalla Bolivia, su una strada malconcia, con pochi lembi di vegetazione, dove il trasporto di legname e la deforestazione sono illegali e i trafficanti tagliano gli alberi per venderli alle segherie. In questa zona molte aree sono contese tra riserve indigene e aziende agricole, mentre altre sono invase illegalmente dai disboscatori. I problemi principali dell’area sono due: gli spazi da vigilare sono immensi, il territorio è vasto e lo Stato non ha modo di mantenere le forze di polizia su tutta l’estensione delle aree su cui avvengono i crimini; sono solo 225 gli agenti nella regione, un numero molto al di sotto di quello necessario per affrontare la sfida. Il secondo grosso problema è la lentezza della giustizia, che spesso anche nel momento in cui i responsabili vengono identificati, porta comunque a consentire di continuare a operare illegalmente per lunghi periodi di tempo, mentre le riserve continuano a perdere pezzi.
Il Brasile ha poi un corpo federale che va in aiuto alle forze dei singoli stati, si chiama Ibama, ovvero Istituto brasiliano dell’Ambiente e delle risorse naturali rinnovabili, ed è la principale agenzia di lotta ai crimini ambientali, ma secondo i dati raccolti dall’agenzia di giornalismo investigativo brasiliana “Publica”, negli ultimi tre anni si è costantemente ridotto il numero delle loro operazioni, poiché il budget messo a disposizione dal governo Bolsonaro continua a essere tagliato progressivamente, indebolendo così il sistema di difesa dell’Amazzonia, considerato dai più di intralcio per lo sviluppo economico. Il Covid, in questo senso, non ha fatto che aggravare la situazione, portando ad approfittare della concentrazione dei media su altre questioni per discutere leggi riguardanti le normative agricole e ambientali nel quasi più totale silenzio. Resistono tuttavia nelle attività di denuncia diversi attivisti e difensori dell’ambiente.
Tra questi la chiesa, con il sinodo in cui papa Francesco parla dell’Amazzonia come un bene di tutti, ma anche con il supporto degli avvocati del Cimi, Consiglio Missionario Indigenista, senza il quale i popoli amazzonici spesso non avrebbero modo di difendersi. Tutto ciò comporta che talvolta i missionari vengano attaccati pubblicamente e corrano alcuni rischi. Il reportage cita alcuni tra i casi più celebri, come l’assassinio di Suor Dorothy Stang nel 2005 o di padre Ezechiele Ramin anni prima. Non a caso, secondo l’Organizzazione Global Witness, il Brasile è al vertice, insieme alla Colombia, tra i Paesi con il più alto numero di ambientalisti uccisi. L’ultima parte del reportage si concentra infine sul business della soia e sui suoi impatti ambientali, ma anche su come gli alberi trafugati dalle riserve naturali riescano a finire nelle filiere legali, arrivando fino in Europa, facilitati da leggi dell’Unione Europea troppo permissive riguardo l’ingresso del legname. Insomma, una piena coscienza ambientale non è ancora diffusa, ma l’urgenza di correre ai ripari diventa ogni giorno più impellente, e questo reportage apre molti occhi, facendo luce con forza proprio su questa impellenza.