Quando di giallo brillante si accendono i campi di colza, o quando d’inverno la neve caduta sul terreno lo trasforma in una sorta di grande lago ghiacciato, o quando ancora attraversi i boschi e le fitte foreste di betulle e di pini che coprono un terzo del suo territorio, l’impressione di una Polonia fuori dal tempo, al di là dello scorrere del tempo, ti invade e in quell’istante pensi che la storia – quella con la S maiuscola – ha preservato e protetto quest’angolo di mondo proprio come la vicina foresta di Bialowieza, magnifica riserva di caccia dei tempi zaristi, dove ancora oggi s’aggirano splendidi e indisturbati centinaia di esemplari di bisonte europeo. E la preziosa guida che ci accompagna in questo viaggio nelle vastità delle terre polacche orientali si fa memoria vivente di presenze mitiche che hanno sfidato l’attrito del tempo: i
buslowe lapy sono dolci a forma di zampe di cicogna con cui le famiglie festeggiano l’arrivo del fedele migratore africano. Le oche, che in ciascun villaggio nel mese di novembre vengono macellate, sono prima riunite insieme per un ultimo commovente saluto ai loro compagni di giochi, i bambini. «Meglio incontrare un demone che un fungo a maggio», recita un proverbio locale che ricorda l’importanza dei miceti negli usi gastronomici, come i pericolosi casi di avvelenamento che da sempre funestano queste zone. E ancora nel bosco: mai vestirsi troppo bene per non indispettire gli spiriti. Sono depositi ancestrali ancora vivi e che Malgorzata Jankowska-Buttitta, da autentica etnografa, ha registrato villaggio dopo villaggio e che ora sta componendo in un libro alla ricerca di un quadro unitario. Ma la Polonia certo, proprio questa Polonia, è stata invece attraversata, battuta, spazzata, falcidiata dalla Storia. La notizia piuttosto è che oggi questa polifonia di voci, di religioni, di sensibilità così diverse convive e a fare rumore, piuttosto, sono i tentativi di pensare un futuro di pace insieme. A Liw si apre il nostro viaggio: siamo a una ottantina di chilometri a nord-est di Varsavia sull’antica via che univa la capitale polacca con quella lituana, Vilnius, quando ancora le due nazioni erano parte di un unico stato, la Confederazione polacco-lituana in vita fino alla fine del XVIII secolo. E proprio il castello di Liw rappresenta il tangibile esempio di una storia tormentata che si affaccia dietro un contesto idilliaco: l’edificio tardo barocco (di inizio ’800) che completa i resti del castello che fu di proprietà di Bona Sforza, figlia del duca di Milano Gian Galeazzo nonché regina di Polonia, venne fondato da un mistico e alchimista locale, Tadeusz Grabianka, che si era autonominato re del Nuovo Israele: venne incarcerato, avendo indispettito il potere zarista, che nel frattempo era diventato il nuovo padrone di quella parte di Polonia. Ma la salvezza delle mura del castello – che oggi rappresenta il punto di partenza del rilancio turistico dell’antica strada polaccolituana – lo si deve a un archeologo cui è dedicato il museo al suo interno: Otto Warpechowski, che «nel 1942 lo salvò letteralmente dalla furia nazista – racconta lo storico e direttore del museo Roman Postek –. Gli ordini erano precisi, i mattoni del castello dovevano servire per i forni crematori del vicino campo di sterminio di Treblinka. Quello di Otto fu un colpo di genio: disse all’ufficiale delle SS Ernst Gramss che quel castello era di origine teutonica. E così i tedeschi non solo lo salvarono, ma cominciarono a mantenerlo perché, dicevano, “era cosa loro”». Conviene a questo punto una deviazione nei luoghi dove sorse il campo di sterminio di Treblinka. Non è rimasto niente del lager, vi è un memoriale, ma una presenza sacra abita quei boschi e penetra nel pellegrino che vi si reca. Se non sapessi che lì ci fu l’inferno, all’opposto penseresti a un luogo di pace e di quiete. Ma è verso la strategica cittadina di Wegrów che i nodi del nostro viaggio cominciano a sciogliersi: sulla piazza un bel fondaco restaurato ricorda la sosta di Napoleone diretto con le sue armate in Russia. Nella basilica minore – dove si è sposato Lech Walesa – vi è lo specchio dove, si dice, l’imperatore vide anticipato l’esito nefasto della campagna. La piazza del mercato è immensa, spropositata, ma è lì a testimoniare il
melting pot di una nazione in continua e a volte tragica ebollizione e che tuttavia a lungo, nei secoli, ha scommesso sulla pacifica convivenza: un certo Campbell fu sindaco della cittadina nonché autorevole esponente della comunità scozzese, in fuga dalle persecuzioni religiose. Ne nacque un fiorente commercio tessile nonché una produzione raffinatissima che, dopo la battaglia di Vienna contro i turchi del 1683, diede il via alla cosiddetta “moda alla turca” che spopolò in tutta Europa. Gli ebrei, protetti dai signori locali, diedero impulso al commercio. I tedeschi fecero fiorire l’artigianato, gli armeni, con i loro contatti con Samarcanda e l’Oriente, le spezie e l’oro. E ancora gli italiani in ambito artistico, gli olandesi maestri riconosciuti nella gestione dei corsi d’acqua. L’Ufficio del turismo di Varsavia segue la regia, ma è la senatrice Maria Koc che anima la valorizzazione di questa via, lunga 250 km solo in territorio polacco: «L’antica strada per Vilnius ci insegna ancora oggi che la nostra è una zona di frontiera prima di tutto culturale. Qui si incontrano e scontrano l’Oriente e l’Occidente». Di concreto a Wegrów sta per nascere il Centro del dialogo delle culture, un’associazione con lo scopo di far convivere le minoranze religiose ancora presenti nel territorio polacco. Ve ne sono molte: e lungo il nostro viaggio verso Bialystok, e da lì alla frontiera bielorussa per salutare il fiero popolo dei tartari, una magnifica sinagoga si alterna con chiese prima protestanti, poi ortodosse, infine alle discrete moschee, componendo così un quadro che fa della Polonia un mosaico, non più omogeneo, ma ricco di colori: tutti vivaci.