Il testimone. Giovannetti: «Io, oggi vescovo, sopravvissuto alla strage nazista»
Civitella in Val di Chiana, nell'Aretino, nei mesi successivi all'eccidio del 29 giugno 1944 (foto Archivio della memoria)
Dalla finestra del suo piccolo studio si scorgono i tetti rossi del centro storico di Arezzo e uno scorcio di piazza Grande, cuore medievale della città. Nell’appartamento che cinge la chiesa di Sant’Agnese il vescovo Luciano Giovannetti è seduto accanto alla scrivania carica di libri, ritagli di giornali e appunti. Fra le mani ha il romanzo La tana dell’odio di Giovanni D’Alessandro. Legge le prime righe: «Ci sono cose che i bambini non dovrebbero mai vedere». «Verissimo – spiega l’emerito di Fiesole, 85 anni il prossimo 26 luglio –. Vale per il giovane medico superstite delle guerre che hanno portato alla divisione nell’ex Jugoslavia, di cui narra D’Alessandro. E vale per me sopravvissuto alla tragedia di un eccidio nazista». È quello entrato nei libri di storia come la strage di Civitella in Val di Chiana, benché fra le località coinvolte ci siano anche Cornia e San Pancrazio di Bucine. Tre paesini a una ventina di chilometri da Arezzo dove il 29 giugno 1944 vennero uccisi in 244 dalla divisione “Hermann Göring” in ritirata. Uno dei più atroci stermini della seconda guerra mondiale in Italia, avvenuto tre mesi dopo le Fosse Ardeatine.
Fra chi lo può ancora raccontare, perché lo ha vissuto, c’è il vescovo Giovannetti che deve la sua vocazione sacerdotale a quel massacro. «Si dice che il sangue dei martiri porta frutti. Lo posso testimoniare in prima persona. Il mio ministero, prima presbiterale e poi episcopale, è uno dei frutti della “santità eroica” del mio arciprete, don Alcide Lazzeri, che offrì se stesso per salvare l’intera comunità dalla furia omicida del commando tedesco. Un tentativo purtroppo vano. Sarebbe stato il primo a essere ucciso». A distanza di settantacinque anni la diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro ha appena aperto la causa di beatificazione del parroco di Civitella morto «in odio alla fede», si legge nell’editto firmato dall’arcivescovo Riccardo Fontana che sottolinea come sia «viva ancora oggi la sua fama di martirio». Fra i primi a “deporre” nel processo canonico proprio l’emerito di Fiesole che nel borgo della Val di Chiana è nato nel 1934. «Ancora sogno quanto successe allora. È come se fosse ieri. Tutto ciò è fonte di grande sofferenza», confida.
Aveva 57 anni don Lazzeri quando fu ucciso. Giovannetti ne aveva dieci. Era uno dei tre chierichetti del sacerdote quella mattina alle 7 durante la prima Messa della solennità dei santi Pietro e Paolo. Una celebrazione conclusa con l’irruzione di quattro soldati – fra cui un italiano – nella chiesa piena di fedeli, presagio della carneficina appena cominciata nelle vie della cittadina. «Era chiaro che si trattava di una rappresaglia – afferma Giovannetti –. Il paese era già in fiamme. Si udiva un sinistro trambusto provenire da fuori. Dopo la Messa, l’arciprete aveva invitato tutti a recitare il Rosario. Quando la porta si spalancò e uno dei militari si mise a gridare “Tutti fuori”, don Lazzeri si presentò ai soldati e disse: “Sono io il responsabile di quanto è accaduto. Uccidete me e lasciate libero il mio popolo”».
Per capire la frase dell’arciprete occorre, però, tornare a qualche giorno prima, al 18 giugno. «Era una domenica pomeriggio – ripercorre Giovannetti – e giocavo in piazza con alcuni amici. Arrivarono alcuni tedeschi che avevano subito familiarizzato con la gente. Ma si avvertiva un po’ di tensione. A un certo punto venne la mamma a prendermi e mi portò a casa. Poco dopo sentimmo alcuni spari nel circolo ricreativo del “dopolavoro”». I partigiani – fra cui “Renzino”, al secolo Edoardo Succhielli, in seguito eletto nelle liste del Pci – avevano assaltato il locale dove quattro soldati del Reich erano seduti a un tavolino. Due sarebbero morti subito; il terzo poco dopo. «Nella mente ho sempre presente la musica che veniva dalla radio rimasta accesa nel circolo dove nessuno aveva il coraggio di entrare». Il blitz al “dopolavoro” è all’origine di quella «memoria divisa» che ancora si tocca con mano a Civitella. Perché il paese imputa la reazione nazista all’attacco dei partigiani. E ogni anno nelle commemorazioni del 29 giugno è quasi impossibile pronunciare la parola “Resistenza”. «Abbiamo bisogno di riconciliazione e concordia», insiste Giovannetti.
Dopo l’offensiva al circolo il borgo rimase deserto. «Fui svegliato durante la notte. Pioveva. I miei avevano deciso di lasciare Civitella e ci rifugiammo nei boschi. Non avevamo cibo. Dormivamo per terra. Poi giunse la notizia di una tentata rappresaglia senza vittime. E tornammo a casa». In realtà la ritorsione tedesca si sarebbe compiuta in un giorno di festa: il 29 giugno. «All’Eucaristia delle 7 ero andato con la mamma. Il babbo era rimasto a casa: avrebbe partecipato alla celebrazione solenne delle 11 – fa sapere il vescovo emerito –. Mentre servivo la Messa, ho sentito alcuni spari all’esterno. Mi sono girato verso l’assemblea e non ho più visto la mamma. Ero nel panico». Scoprirà più tardi che lei era corsa a casa per svegliare il padre: aveva intuito qualcosa. «Aveva fatto nascondere il babbo nel rifugio dei conigli sotto il forno. Sarebbe stato uno dei pochi uomini a salvarsi». Non i nonni e gli zii del futuro vescovo, ad esempio.
Giovannetti non esita a definire l’incursione tedesca nella chiesa gremita una «profanazione». «Uno dei militari si era messo al centro del presbiterio con il mitra e urlava. Intanto dalle finestre abbiamo visto il paese messo a ferro e fuoco». I nazisti avevano incendiato le abitazioni per far uscire i residenti. «La mamma mi ha preso per mano e siamo fuggiti nell’orto della canonica. Una volta usciti, ho visto i primi cadaveri per strada. Ci siamo nascosti dietro le mura che circondano Civitella, nella macchia». Dall’altro lato delle mura si consumava il massacro. A cinque a cinque, uomini e adolescenti venivano portati accanto alla “cisterna”, al pozzo, e ammazzati a colpi di pistola. «La strage avveniva dietro di noi, a pochi metri. Sentivo le grida. Alcuni invocavano la morte. Il fumo copriva il cielo. Anche nel bosco le pallottole ci fischiavano attorno. Eravamo convinti che fosse giunta la nostra ora e ci siamo messi a pregare la Madonna. Dicevamo: “Nessuno ritroverà i nostri cadaveri in mezzo a queste sterpaglie...”». Giovannetti fa una pausa. Alle spalle ha alcuni libri che rievocano l’eccidio. «Nel dopoguerra Civitella è stato un paese abitato in gran parte da vedove vestite di nero. Che hanno trovato conforto nella fede, capace di infondere coraggio e tradursi in esemplare dignità». Con una straordinaria venerazione per l’arciprete “martire”. «Non solo la piazza principale porta il nome di don Lazzeri, ma la sua pianeta è conservata come una reliquia nella “Sala della memoria” e c’è lui nel portone di bronzo della chiesa accanto a Gesù Buon Pastore». Del corpo del sacerdote vennero rinvenuti pochi brandelli bruciati nella canonica.
I 62 anni da prete di Giovannetti e i 41 da vescovo sono tutti segnati dalla «ferita del cuore» che l’eccidio gli ha procurato. «Sempre con discrezione ne ho fatto riferimento nelle omelie, negli scritti, negli interventi pastorali. Pochi mesi fa, come presidente della Fondazione Giovanni Paolo II che si occupa di cooperazione e sviluppo in Medio Oriente, sono stato invitato all’ospedale Bambin Gesù di Roma per incontrare alcuni piccoli siriani che soffrono di varie forme di traumi da conflitto. A loro ho raccontato come io bambino abbia vissuto una strage di guerra. Allora qualcuno fra i medici ha sussurrato: “Se lui è diventato vescovo, si può risorgere dalle atrocità...”». Giovannetti c’è riuscito anche grazie all’esempio del parroco. «Ricordo la sua casa sempre aperta, le ripetizioni scolastiche, la passione per i giovani. E soprattutto una frase: “Cari ragazzi, quando non ci sarò più, vorrei che qualcuno di voi prendesse il mio posto”». In due hanno esaudito il suo desiderio: don Daniele Tiezzi, seminarista e chierichetto in quel 29 giugno 1944 scampato alla rappresaglia e morto nel 1997, e Luciano Giovannetti. Che è entrato in Seminario due anni dopo l’eccidio ed è stato ordinato prete nel 1957. «Tuttora risento la voce di don Alcide. È stato un sacerdote con l’odore delle pecore, direbbe papa Francesco. Uno dei tanti preti che ieri come oggi si immolano per il popolo e che sanno spendersi nel nome di Cristo morto e risorto».