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Cinema. Carlo Verdone: «Vi racconto mio padre»

Eusebio Ciccotti giovedì 13 luglio 2017

L'attore e regista Carlo Verdone

Sotto un grande pino nel giardino della casa di campagna di Carlo Verdone, in Sabina, parliamo di un centenario, quello della nascita di suo padre Mario, tra i principali storici e critici del cinema italiani e direttore del Centro Sperimentale di Cinematografia.

MarioVerdone, senese, nasce ad Alessandria il 27 luglio del 1917. Strane queste origini piemontesi...

«Mio nonno Oreste fu ricoverato in un ospedale militare ad Alessandria. Era tenente e aveva subito ferite sul fronte in Slovenia. Sua moglie Assunta Casini, senese, lo raggiunse quando era incinta di mio padre nell’ultimo mese di gravidanza. Il destino volle che mia nonna partorisse proprio nell’ospedale dove lui era convalescente. Mio nonno ebbe così la fortuna di vedere mio padre Mario appena nato».

In un bellissimo racconto La stazione di Pisa Mario immagina l’addio tra sua madre e suo padre: la prima diretta verso Siena, il secondo verso il fronte. Sono i primi di agosto del 1917. La madre e il bimbo non avrebbero più rivisto il giovane ufficiale…

«Mio padre immaginava sempre quell’addio. Doveva essere stato struggente e triste. Il piccolo Mario aveva una vita davanti da affrontare tra mille difficoltà, il padre Oreste, invece, andava incontro alla morte. Nel settembre del 1917 un colpo di mortaio austriaco lo uccise in trincea. Abbiamo trovato noi fratelli le ultime lettere di Oreste ad Assunta. E non abbiamo potuto trattenere le lacrime per la disperazione di mio nonno che scrive: “Il freddo mi gela le mani, mi entra nelle ossa e io ormai non sono più padrone di me stesso…”. Di lì a pochissimi giorni sarebbe caduto sul Monte San Michele. Papà ci ricordava sempre le raccomandazioni di Oreste ad Assunta: “Accada quel che accada ti prego di farlo studiare. Costi quel che costi”».


Il ragazzo Mario studiò.

«Nonostante l’umile condizione economica di mia nonna e dei suoi fratelli, furono seguiti alla lettera i desideri di Oreste. Mio padre frequentò il liceo classico e negli anni universitari diventò assistente di Norberto Bobbio. Fu il primo docente e direttore di istituto di Scienze dello Spettacolo a Parma e, dopo, alla Facoltà di Magistero a Roma. Praticamente un uomo che si è fatto da solo, grazie alle sue tante passioni e interessi culturali. E di questo ne vado fiero».

Nella vostra casa di Lungotevere dei Vallati si organizzavano piccoli spettacoli di teatro.

«Lo racconto nel mio libro La casa sopra i portici, lì ci si divertiva molto. Non solo i miei genitori ma anche gli zii materni improvvisavano atti unici su la Duse, D’Annunzio, i clown, i gagà di via Veneto. Affittavano dei costumi e si esibivano per molti amici. Quella casa era un teatro vero. Forse da lì ho acquisito quella sensibilità per la recitazione e la trasformazione».

Cosa diceva il critico Mario di quegli show?

«Mio padre si divertiva molto e il suo cavallo di battaglia era rifare con mio zio Ermanno un numero dei Fratellini, nota famiglia di clown, o alcuni monologhi goliardici del suo periodo universitario a Siena. Era molto bravo e quel suo accento marcato senese era assai comico. Abbiamo avuto una famiglia piena di fantasia dove regnava la condivisione del divertimento».

Un giorno arrivano i Beatles a Roma, al cinema Adriano. È il giugno 1965. Cosa fa suo padre?

«Papà, dopo avermi punito per esser stato bocciato in quarta ginnasio negandomi il regalo di una batteria, compie un atto da grande padre moderno: bussa alla mia stanza da letto e mi dà in mano una busta... Dentro c’erano due biglietti per il concerto serale dei Beatles. Andai, raggiante, nel suo studio per ringraziarlo e lui con tono professorale mi disse: “È un evento molto importante dal punto di vista musicale e del costume. Va visto. Ci andremo insieme”. Era sempre attento alle nuove tendenze giovanili e al concerto si divertì quanto me. L’ultimo film che vide prima della malattia fu Across the Universe accompagnato dalle canzoni dei Beatles. Lo trovò bello, poetico. E me lo consigliò».

A casa vostra sono passati diversi autori e artisti del Novecento. Fellini, Scialoja, De Sica, De Oliveira... Che ricordo ha?

«Erano uomini semplici, umili, grandi. Vedendo tutti quegli artisti compresi, negli anni, che i grandi talenti avevano una cosa in comune: un animo pieno di grazia e umiltà. Pittori, musicisti, registi, scrittori, tutti venivano volentieri nella nostra casa. Anche perché accanto a papà c’era una gran donna: mia madre. Lei era il collante del nostro salotto. Era amata da tutti».

Con Rossana, sua madre, Mario non ha avuto solo una grande storia d’amore ma è stato un sodalizio intellettuale.

«Un giorno vengo avvertito che un signore mi sta cercando. È un appassionato di lettere e fotografie antiche che spesso va a cercare a Porta Portese. Lo incontro. E lui molto affettuosamente mi consegna un numero enorme di lettere dei miei genitori. Andavano dal 1943 al 1949, anno del loro matrimonio. Sono lettere toccanti per lo stile, la grazia, l’amore e il rispetto che emanano e aiutano a comprendere gli eventi storici di quegli anni difficili per l’Italia».

E quella volta che suo padre la bocciò all’esame di Storia e critica del film?

«La sera prima, mi avvertì che mi avrebbe interrogato non lui ma un assistente. Io lo pregai di dire all’assistente di interrogarmi sul Neorealismo o su Fellini o Zavattini. Mio padre ebbe un gesto di disappunto. Ma finì lì. Il giorno dopo l’assistente non viene perché malato e così mio padre è costretto a interrogarmi. Mentre io gli sillabo Fel-li-ni, Za-vat-ti-ni, lui con aria severissima mi chiede: “Pabst. Mi parli di Pabst…” Continuo a sillabargli Neo-rea-lis-mo… Lui ribatte: “Mi parli allora di Dreyer”. Feci scena muta. E lui con aria autoritaria indicò la porta: “Si ripresenti alla prossima sessione più preparato”. Me ne andai furibondo e mortificato. Mentre gli altri studenti basiti dicevano tra loro: “Oh, ha bocciato er fijo!”. La sera a casa mio padre la prese a ridere dicendo: “Mi scocciava far vedere che il padre promuoveva il figlio… Comunque la prossima volta preparati Dreyer!”».

Ne temeva il giudizio sui suoi film?

«Molto. Alla fine di una anteprima lo guardavo subito. Se il film gli era piaciuto faceva un cenno di assenso col capo. Se rimaneva impassibile, anche applaudendo, aveva delle riserve o non gli era piaciuto».

Mario Verdonese ne va nel giugno del 2009 mentre lei è sul set di Io, loro e Lara. Ogni giorno, dopo il lavoro, corre da lui in clinica. Cosa le diceva?

«Che non dovevo andare in clinica dopo le riprese. Mi sarei affaticato ulteriormente. “Vieni o il sabato o la domenica, Carlé, entra nell’ordine di idee che sono un passeggero che deve prendere un treno. Che sta ritardando… Fallo bene questo film. Ci tengo molto”. E dispensava consigli di vita a mio figlio Paolo. È morto come un filosofo greco».

Quando pensa a lui come lo ricorda?

«Con la cosa più bella che aveva: una risata liberatoria che contagiava. Per il centenario dalla nascita faremo commemorazioni a Siena e a Roma con il Centro Sperimentale di Cinematografia. In più mio fratello Luca girerà un documentario sulla sua vita. Glielo dobbiamo».