Favole di cuoio. Vercelli, riso e pallone: quando regnava la Pro
La formazione della Pro Vercelli che nel 1908 si laureò campione d’Italia, il primo dei sette scudetti conquistati nella sua storia
Dietro la gradinata Nord spuntano ancora gli alberi, e dietro agli alberi c’è un piccolo parco con i giochi per i bambini, e fazzoletti più o meno grandi di erba dove fare correre una palla. Cent’anni fa e oltre, sulla stessa terra - meno pettinata e assai facile ad assumere la forma del fango e della polvere -, una sfera più ruvida e tenuta insieme da una stringa veniva inseguita e calciata da ragazzi in camicia bianca, un po’ rustici forse, ma bravi e vogliosi abbastanza per rimanere a distanza di un tempo infinito per la vita, figuriamoci per il calcio. Il territorio del mito è racchiuso in due isolati, uno stadio e una piazza verde. E il posto è Vercelli, città discreta e lavoratrice, annegata in mezzo alla pianura. In Italia, e forse ancora di più fuori Italia, molti sanno dell’esistenza di questo posto perché bene conoscono le tre lettere che spesso ne hanno preceduto la citazione: Pro. La Pro, per gli autoctoni basta già così. Se il Genoa, - e Genova - è stata la culla del nostro calcio, la Pro Vercelli è stata la generosa levatrice, colei che ha svezzato il movimento verso la crescita, l’identità poi definitiva. «Lì è nato il football atletico nelle nostre lande», sancisce Gianni Brera nella sua Storia Critica del Calcio Italiano: una piccola grande rivoluzione che è valsa sette scudetti dal 1908 al 1922, che ha dato l’imprimatur alla nascente Nazionale italiana, che ha prodotto le prime pietre preziose grazie a un vivaio all’epoca unico. Nei tre grandi centri del triangolo industriale, in quei ruggentissimi anni, una pratica ancora grezza, ma già caratterizzata dalla ricerca dello stile poco influenzato dai fondatori inglesi; dalla provincia (ma da quella vera: all’epoca, il capoluogo era ancora Novara), ecco spuntare dal nulla gli enfants di un paysancora molto legato alla campagna, alle vicine risaie e a tutto un modo più pragmatico di intendere la vita. E che istintivamente portano tutto questo nel gioco domando avversari e campi pieni di gobbe e insidie.
Si capisce bene perché il mediano Ara, uno dei simboli di quella epopea, sia il creatore della famosa e superstite massima secondo la quale il calcio «non è uno sport per signorine». Nasce la leggenda delle Bianche Casacche, che sarebbero state bianconere come l’ispiratrice Juventus se uno dei primi lavaggi non avesse stinto le righe nere, e indirizzato tutti quanti a una normale blusa candida, presente in qualsiasi guardaroba. Bianchi fuori e Leoni sempre, almeno fino agli anni ’30, tra altri gioielli estratti dalla scuola del Camp de la Fera ( vale a dire la tana dove oggi sorge il parchetto) e un nuovo stadio, una sede degna della neonata Serie A. Viene dedicato a un figlio di Vercelli eroe di guerra, Leonida Robbiano, e oggi ha le insegne di Silvio Piola, l’ultimo monumento, il primo eroe di quella nuova casa. Questo edificio è ancora lì, e rappresenta l’infinito ponte, lungo quasi 90 anni, tra quella leggendaria epoca e la Pro di oggi, così vicina e così lontana dalla Vercelli di oggi. La caduta repentina già prima del secondo conflitto mondiale e una parziale risalita effettuata solo negli anni più recenti hanno cristallizzato l’epoca d’oro, distante milioni di chilometri non solo per questioni meramente cronologiche. Vercelli, da subito, è diventata una piazza minore, C e D, D e C, con quel nome, quella maglia, quello stemma contornato da fregi che sembravano volere attestare senza ombra di dubbio che si trattava di qualcosa del passato, buono sempre per nobilitare una classifica, un calendario. Quando nel paesetto piemontese, nello stadiolo ligure arrivava «la Pro dei 7 scudetti», una minima aura di una domenica speciale si poteva sempre avvertire. E Vercelli, in tutto questo tempo, è rimasta lì: crogiolandosi nell’orgoglio, ma anche seguendo vicende sportivamente piccole, davvero da periferia del calcio. Per un tifo da Serie A, se non proprio da scu- detto, è tuttavia sempre bastata l’occasione: il doppio spareggio per la promozione in Serie C del 1971 contro l’odiata Biellese, 15mila “bicciolani” al Comunale di Torino, vittoria alla monetina. Oppure gli spareggi playout di certe stagioni recenti, con 1.500 persone a spingere squadre nemmeno lontane parenti di quella ricordata nelle fotografie dei bar, nei libri di zii e nonni.
Una passione al presente, insomma, senza dimenticare il passato, figuriamoci, chi se lo può permettere? Nell’ultimo decennio, poi, proprio a un secolo di distanza dal periodo più fulgido della Pro, il ritorno a ribalte più consone, a riflettori più forti. Con peccato originale, però. Le ribalte sono state quelle della Serie B, in cui i Leoni sono tornati nel 2012, dopo qualcosa come 64 anni di assenza. In due diverse tornate, cinque partecipazioni al secondo campionato nazionale; il peccato, invece, è stato quello di una radice che non era più quella originaria. Nel 2010, la Pro Vercelli è fallita, per la seconda volta: e il buio definitivo è stato evitato solo grazie a un vero e proprio trapianto sportivo che ha visto la concittadina Pro Belvedere, salita fino alla C2 e arrivata a giocarsi l’impensabile stracittadina, rilevare nome, titoli e Bianche Casacche: e continuare, anzi, rilanciare il cammino della nobile da troppo tempo decaduta. Il prodotto dell’operazione è stato il miglior segmento nel dopoguerra del calcio vercellese: ma il feeling tra la società del presidente e artefice della scalata Massimo Secondo e lo zoccolo duro del tifo non è mai scattato, a dispetto dei risultati, a dispetto dei molti buoni giocatori transitati dal Silvio Piola e giunti in Serie A, in piazze importanti. Non è stato rado, negli anni di B, contare più presenze dei tifosi ospiti rispetto ai locali. Proprio in queste settimane, la Pro Vercelli scrive il suo ennesimo punto a capo. Secondo e il suo gruppo stanno lasciando, la nuova proprietà viene dal Novarese - sacrilegio! - e promette di essere degna, di ricreare calore, soprattutto di tenere a galla in questi tempi così complicati questo nome così breve e così pesante. Ci sono in ballo sette scudetti, eredità incancellabili. Ma per Vercelli, forse, contano ancora di più le ringhiere e i capitelli in ferro battuto e stile neoclassico della tribuna dello Stadio (protetta dai Beni Culturali), la nebbietta che di autunno si alza ancora nei giardinetti di Piazza Camana e che fa illudere che le sagome sfumate degli alberi siano in realtà Ardissone, Rosetta, Pietro Ferraris, sempre lì a giocare e vincere al Camp de la Fera, nella Fossa dei Leoni. Nel tempo fermo di Vercelli è ancora semplice immaginarsi nel passato: naufragarci vi è dolce, se il presente non lo vale.