Agorà

Mamiano. Pubblicità, così si vendono anima e desiderio

Maurizio Cecchetti venerdì 15 settembre 2017

La pubblicità del "Fernet Branca" (1910) di Leonetto Cappiello

Ha scatenato un putiferio la nuova pubblicità del “Buondì” Motta che mette in scena una colazione en plein air con evento fatale: un meteorite cade e schiaccia mammina, e poi anche papino, mentre la figlioletta, insensibile al dolore della perdita, ci riprova per la terza volta: questa volta tocca al postino, e qui il meteorite è rappresentato dal Buondì stesso che cade sul pacioso portalettere e si prende tutta la scena per sé. Così il gioco diventa complesso e sarebbe troppo lungo ripercorrere pro e contro, peraltro già esposti su questo giornale. Qui conta dire che quella massima americaneggiante secondo cui la pubblicità è l’anima del commercio moltiplica il business diventando anima del dibattito sociale e culturale. Comunicazione, forse controversa, ma sempre capace se studiata nei minimi meccanismi di accendere elevatissime ed eticissime riflessioni, che nondimeno incentivano il consumo reclamizzando il marchio. È il paradigma del capitalismo attuale discusso già dalla Scuola di Francoforte dove metteva in luce che per l’industria culturale l’unica cosa da scongiurare è il silenzio. Regola aurea: che se ne parli... «in bene o in male, purché se ne parli». Al quartier generale della Motta dunque avranno fatto non solo colazione, ma anche spuntino di mezza mattina, pranzo, merenda pomeridiana, aperitivo e cena a forza di brioche, festeggiando così l’obiettivo raggiunto. Se, come si dice sempre più spesso, si dovrebbero aggiungere il cinema e il teatro alle materie scolastiche, forse sarebbe utile anche una sezione sulla pubblicità, per insegnare ai ragazzi che cosa ha dignità estetica e culturale, e cosa invece rientra nel più trito luogo comune e nel kitsch più prosaico (in testa le pubblicità di automobili, medicinali, igiene intima, cellulari...). Sicuramente potrebbe risultare anche più appassionante di altre materie classiche e fugare certe preoccupazioni etiche sui messaggi subliminali che corrono in immagini o spot.

A Mamiano di Traversetolo, negli spazi della Fondazione Magnani Rocca, si è aperta da qualche giorno una mostra (Pubblicità, aperta fino al 10 dicembre) con circa duecento opere dove si vuol fare la storia italiana della pubblicità dal 1890 (quando sulla “Tribuna italiana” pare sia apparso il più antico slogan pubblicitario) al 1957, anno di nascita di Carosello. Diciamo subito che la mostra manca nella sostanza l’obiettivo di farci capire che cosa abbia rappresentato la pubblicità nella storia italiana e, come sempre più spesso accade, il catalogo (edito da Silvana) è una sommatoria di saggi che nella rassegna non trovano poi una partizione precisa che faccia comprendere gli sviluppi, i generi, i temi ricorrenti, i rapporti socio-culturali col sistema produttivo e commerciale, l’idea stessa di pubblicità come opera d’arte. Appena si entra, i bozzetti di Marcello Nizzoli ci promettono qualcosa che poi lentamente sfuma; Nizzoli fu l’erede più brillante delle innovazioni del futurismo, mischiate da lui con una cultura figurativa che teneva conto di De Chirico, Sironi, il Novecentismo, l’espressionismo, l’astrattismo. È stato uno dei grandi designer italiani del Novecento, un vero artista e le sue immagini sono al tempo stesso invenzioni plastiche e riduzione delle forme a una valenza simbolica.

Tutti abbiamo in mente Depero e la sua ironia dell’universo meccanicistico che in pubblicità diventa un teatrino di marionette cui si “attacca” per così dire il logo da propagandare; in mostra però la sua opera non c’è; eppure, un fatto è ormai chiaro anche sul piano storico: fu il futurismo con le sue acrobazie visive e linguistiche a fondare il linguaggio moderno della pubblicità, e Nizzoli, Bruno Munari e Armando Testa ne saranno i degni eredi. Ciò che salta agli occhi nelle pubblicità degli anni Dieci e Venti è la presenza insistente della donna. La pubblicità è femminile? Come la bellezza e la seduzione; dunque ci sta. Ma è più interessante osservare che il “Corriere della Sera” di Giovanni Beltrami e Franz Laskoff o oppure la “Gazzetta dell’Emilia” di Marcello Dudovich e “Il Giornale d’Italia” di Luigi Bompard hanno tutti come testimonial immagini di signore eleganti, che talvolta leggono. Un tema anche nella pittura dell’Otto-Novecento italiano, quello delle donne che leggono, ma che nelle affiche dei giornali diventa più ambiguo: saranno dunque le donne le più acculturate, ovvero la loro immagine bella le rende sofisticate prede accalappiatrici per i maschi italiani – apparentemente i veri lettori di ebdomadari – della borghesia, che si recano in un caffè o in un giardino pubblico sempre pronti a un avance galante? (Come quel distinto signore che, nell’affiche del “Resto del Carlino” di Adolf Hohenstein, tenendo una tazza nella mano e nell’altra una sigaretta arriva alle spalle di una bella signora tutta presa a leggere, e finge di sbirciare il giornale ma nello sguardo già la concupisce.) Certo è che “L’Ora” – “corriere politico quotidiano della Sicilia” come recita la testata – non sia fa remore nel mostrare una signorina in tutta la sua nuda bellezza, che si rivolge al suo affezionato lettore guardandolo come se gli promettesse un’avventura proibita: La pubblicità di Armando testa per «Borsalino» (1954); quella di Leonetto Cappiello per «Fernet Branca» (1910), quella «Campari» di Marcello Nizzoli (1926), quella di Sepo per gli «Inchiostri Pessi» (1920) e ancora una di Testa, per «Punt e Mes» (1960) anno 1909. Il peggio doveva ancora venire, ma intanto il pensiero politico borghese faceva lo slalom lungo la schiena tornita della bella siciliana dai capelli biondorame ignaro dei drammi prossimi venturi: la Grande Guerra era dietro l’angolo e sarà l’ostetrica del Ventennio dalle mascelle volitive e gli impettiti vir: unica testimonianza in mostra, la moderna cromolitografia mussoliniana di Alexander “Xanti” Schawinsky dal laconico titolo: Sì, anno 1934. Troppo poco per capire qualcosa di come propaganda, pubblicità e regime si sono spalleggiati all’epoca. C’è, però, un’amena pubblicità dell’olio di ricino disegnata da Erberto Carboni per una ditta pescarese: è del 1924, e l’anno non prometteva già niente di buono per l’uso improprio che di quell’olio si farà nelle segrete di regime. E così via, con una sfilata di pubblicità per pasta, acque minerali, dentrifici, vermouth, Campari, spumanti Cinzano, lambrusco, liquori – il celebre Vov che Nizzoli rappresenta come un missile nello spazio, un sussulto, un tiramisu o un’esclamazione soddisfatta, quasi un “wow” di Arthur Fonzarelli in Happy Days.

Giunti agli anni che preparano Carosello la mostra si smarrisce in una generica rappresentazione di alcuni esempi, soprattutto di Armando Testa, arrivando fino ai bozzetti per “Punt e Mes” (che sono del 1960, tre anni dopo la data scelta come conclusione dalla mostra) e non si capisce perché dunque non spingersi oltre fino, mettiamo, alle pubblicità che l’Olivetti realizzò per la Valentine di Sottsass, che sono del 1968 e rispecchiano davvero la voglia di libertà creativa di un anno simbolico per tanti versi della nostra storia e non solo. Si può prendere questa fine tiepida a Mamiano come un immaginario trampolino per comprendere la novità pubblicitaria di quegli anni rappresentata da Armando Testa agganciandosi alla mostra a lui dedicata al Mart di Rovereto, che rende bene la differenza fra chi fa pubblicità con genio artistico e chi si limita da buon tecnico o mestierante a darne una illustrazione che fa appello sempre a certi meccanismi basici della psiche umana nell’identificazione fra prodotto, marchio e immagine-slogan. Testa ha davvero rappresentato l’Italia che si apre sulla televisione e le allusioni intelligenti della nuova pubblicità: “Punt e Mes” è perfetta proprio nella riduzione astratta fra immagine e significato del nome; ma anche quelle per lo sketch della Saiwa con arpa e violino, della Lavazza e della Facis con le parodie sulla pittura astratta, o ancora l’icona del digestivo Antonetto. Una verve artistica che Testa ha espresso parallelamente alla pubblicità come sua vera anima creativa, vedi l’ippopotamo Pippo della Lines o la saga di Caballero e Carmencita della Lavazza. Stile che ritorna, da designer surreale, anche in oggetti come Sedia con matita del 1972 o in dipinti astratti come il notevole Ku Klux Klan del 1986. Testa produce immagini dagli stessi referenti che adotterà poi nella pubblicità: la divisione della mortadella, la poltrona rivestita di prosciutto, il blocco di ementhal che sembra una televisione, gli spaghetti che colano il sugo sulla tela. L’arte, così, porta alla luce il “profondo kitsch” della pubblicità nella società dei consumi. Su cui si può ironizzare, ma non scherzare.