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Musica. Vecchioni: «Io credo nel perdono e nel futuro»

Massimiliano Castellani venerdì 24 dicembre 2021

Il cantautore milanese Roberto Vecchioni, classe 1943, durante un suo recente concerto

«Per amore, solo per amore... Sancho non muore», risuona nella stanza, illuminata dalla cometa dell’albero acceso, la voce del “Professore”. Parlare con il Prof. Roberto Vecchioni, milanese, di padre napoletano, classe 1943, uno dei migliori poeti del cantar leggero, serve anche a questo: a vedere insieme quella cometa, di ieri e di oggi, che viaggia già verso il domani. Chiacchierare con l’uomo che ha studiato e insegnato i classici nei licei per tutta la vita, serve a riascoltarsi, riascoltando i suoi album (da quello di esordio, 1971, Parabola – contenente il primo successo, Luci a San Siro a L’Infinito 2018 -) e rileggendo le sue Canzoni, titolo anche dell’autoantologia (scritta con il commento di Massimo Germini e Paolo Jacchia). Un libro (Bompiani) da mettere stanotte sotto l’albero di Natale, con la lampadina della memoria che si accenderà dinanzi alle quattro parole ricorrenti della poetica vecchioniana: «amore, stelle, gioco e sogno». E poi c’è una quinta parola, che sta dentro a uno dei brani più belli e più recenti, La canzone del perdono. «So quanto pesi dentro la tempesta e quanto costi fuori la felicità... E so dal tuo sorriso che anche all’inferno si trova un gran rosso d’amore».

In queste “strofe” forse c’è tutto il Vecchioni spirituale, il credente.

Nasco ateo e cresco comunista. Ma ho fatto le scuole cristiane, l’università alla Cattolica, perciò a stare con i preti ho respirato l’aria della grande cultura ma anche la sottile, eppure pesante, oppressione. Ho fatto il ’68 dalla parte dei buoni, la mia è stata una protesta non violenta. Poi, nel tempo la ricerca della fede l’ho messa dentro almeno dodici canzoni che considero dei brani in “dialogo con Dio”.

Ha avuto risposte dall’Alto?

Mi sono capitate cose inspiegabili, episodi in cui mi sono salvato per un soffio... A un certo punto ho cominciato a chiedermi: perché al mondo avvengono cose che la scienza non sa e non può spiegare? Perché soffrono i più deboli e perché Dio permette tutto questo? Domande da uomo, stupide... Le risposte le ho trovate in incontri e confronti fondamentali, tipo con il cardinal Ravasi e il cardinal Pignedoli, ma soprattutto dalla lettura settimanale del Vangelo. Ci sono verità incredibili, specie in quello di Giovanni e Matteo che nel Discorso della montagna traccia il solco con l’insegnamento: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori».

È da lì, dal Vangelo, che origina La canzone del perdono?

Anche da lì, ma soprattutto dalla meraviglia che in nessuna cultura pagana si ritrova questa invenzione divina del perdonare, che è peculiarità unica del cristianesimo. Gesù sulla croce, quando il ladrone lo implora, «ricordati di me quando sarai nel tuo Regno», non fa una piega, e gli risponde: «Oggi sarai con me in Paradiso». Ogni volta che ripenso a questa frase provo i brividi. Pensiamoci bene stanotte quando nascerà Gesù, pensiamo alla grandezza e al peso che il perdono può avere nelle nostre vite...

Nei giorni del dolore quanto ha contato questo suo spirito cristiano?

Ho subìto tre interventi chirurgici e sono scampato a tre tumori, ma la forza della presenza divina l’ho avuta anche tra una pausa e l’altra dai giorni dolorosi. È avvenuto in me, quello che mi avevano detto i preti da ragazzo: «Quando ti tocca ti tocca, è la Grazia». E la Grazia è un dono che dobbiamo custodire con la consapevolezza che però, prima di aspirare al Cielo, dobbiamo vivere qui, su questa terra. E dobbiamo farlo rispettandola, amando la bellezza, vivere da uomini che tendono alla moralità e non ai moralismi, senza giudicare mai, proprio come chiede il Papa.

Ha mai incontrato papa Francesco?

No, e avrei tanta voglia di stringergli la mano e di abbracciarlo forte. Ma forse prima devo vincere qualche Olimpiade... – sorride – . Se mi chiama, vado a piedi fino a Roma e faccio come Enrico Berlinguer con Benigni, gli canto le mie canzoni chiedendogli di stare tra le sue braccia. Scherzo ... Dobbiamo ringraziare il Cielo che ci ha mandato un Papa così, attento a tutti, pronto a ricordarci sempre: «Chi sono io per giudicare?».

Uno dei temi cari al Papa è il grande patrimonio rappresentato dai nonni.

C’è un proverbio senegalese che dice : «Quando muore un nonno è come se bruciasse una biblioteca ». Ora che sono nonno lo comprendo a pieno, e mi fa male sentire storie di vecchi abbandonati o non considerati. I miei nipotini, anzi le mie nipotine, sono tutte femmine (le gemelle di Francesca: Nina è bionda e alta, Cloe piccola e mora e le due figlie di Carolina: Amelia ha otto anni, Adelaide tre) mi adorano e io adoro loro. Quando le guardo, con orgoglio vedo che c’è un pezzo di me nelle loro piccole esistenze, e allora avverto forte il «non omnis moriar» di Orazio: quando un giorno me ne andrò, grazie alla bellezza dei loro gesti e delle loro parole, so che non morirò del tutto, e che non tutto andrà perso.

Nell’ultimo concerto agli Arcimboldi, parlando con il pubblico è tornato figlio, raccontando aneddoti esilaranti di suo padre che, arrivato a Milano da Napoli, entrò con un cavallo nel negozio in cui era affisso il cartello «vietato l’ingresso ai meridionali».

Mio padre era un liberale politicamente parlando e un uomo profondamente libero nella vita. Saper sognare e credere nella libertà, sono stati i suoi insegamenti più grandi... Quella volta in piazza Cadorna affittò un cavallo da un vetturino ed entrò nel negozio dicendo al gestore: «Questo è il cavallo e questo è un meridionale ». Aveva la mania del gioco e delle scommesse dei cavalli. Alle aste comprava i quadri dei pittori più scalcagnati sperando che poi alla loro morte le opere sarebbero cresciute di valore. Mai successo – sorride – . Gli piaceva an- dare a cena al Santa Lucia, un ristorante storico vicino al Duomo, frequentato da intellettuali e dagli artisti dopo il teatro. Un giorno al tavolo vicino a noi stava seduto Eugenio Montale e mio padre mi fa sottovoce: «Roberto, vedi quello lì è uno che sa tutte le cose che gli altri non sanno». Io mi alzo, vado al suo tavolo lo tiro per la giacca e gli chiedo: «Scusi signor “Un tale”, lei che sa tutto, mi sa dire che fine ha fatto il mio trenino elettrico?». Avevo sette anni, per me il futuro Nobel per la poesia era il signor “Un tale” che tutto sapeva.

«Sogna ragazzo sogna...». Ma quando ripensa alla Milano dei suoi vent’anni come la rivede?

Bella. Non c’era niente dello sfarzo e della città verticale di oggi, ma c’è una cosa che ora non c’è più: la nebbia, quella vera, vitale, non quella del nonno di Fellini che pensava fosse la morte. A vent’anni, dietro a quella nebbia scoprii lo spettacolo dei piccoli cabaret, dove lavoravo per poche lire accompagnando personaggi surreali. Era la Milano dei “trani a go-go”, di Jannacci e Gaber, artisti che ti insegnavano a parole e fatti. La mia scuola più grande è stata quella di Dario Fo e Franca Rame, gli devo tanto se poi ho scelto di fare questo mestiere del cantautore.

Un mestiere condiviso soprattutto con l’amico di sempre, Francesco Guccini.

Lo conobbi tra un bicchiere e l’altro bevuto al Premio Tenco, ma lui era già famoso. Francesco mi ha insegnato cosa significa scrutare la vita e cantare quello che senti, osando, andando sempre sotto la scorza della verità. Tutto questo ho cercato di renderglielo indietro in Canzone per Francesco... Perché non abbiamo mai fatto un tour insieme? Perché Guccini vuole essere da solo sul palco. L’unica cosa che siamo riusciti a fare insieme è stata incidere Ti insegnerò a volare. Dopo quarant’anni d’amicizia, un giorno glie l’ho fatta sentire e sono andato lassù da lui, a Pavana e quella canzone l’abbiamo registrata nella cucina di casa sua.

Sono passati dieci anni dalla sua vittoria al Festival di Sanremo, con Chiamami ancora amore. Ci tornerebbe?

Non ho la canzone, non posso. Quel Sanremo è stata una magia unica e irripetibile. Non avrei mai pensato di riuscire a scrivere una canzone da portare al Festival, poi Gianni Morandi mi ha quasi costretto a provarci e quando l’ho finita me la sono ricantata in testa fino allo sfinimento. E mi sono detto: sì questa è davvero buona per Sanremo. L’aver vinto è stato un sogno realizzato e anche un momento di piena condivisione con quelli che nel tempo hanno continuato a pensarla come me. Che poi sono gli amici veri che da sessantottini, anche invecchiando, almeno non sono diventati peggiori di quelli che combattevamo, ma hanno conservato lo spirito di chi sa esistere e resistere, come quella pasionaria di mia moglie Daria.

Stanotte è Natale, un dono che vorrebbe ricevere e un pensiero per quello che si aspetta dall’anno che verrà.

Penso di avere già avuto tanto dalla vita. Per il futuro resto un inguaribile ottimista. Riprenderò L’Infinito tour e per i miei primi 80 anni, nel 2023, ho in mente un disco molto grosso, magari con 4050 canzoni. Mi piacerebbe cantare anche brani di altri, come il Modugno di E vene ’o sole. «A notte si sperde inda ’a matina / O vico chianu chianu se schiara E vene o’ sole... Sole, sole, sole» – intona – . Sì, sono sicuro, dopo tanto buio tornerà un grande sole a risplendere su tutti noi.