Durante il Concilio Vaticano II una delle parole-chiave che pareva aleggiare sui Padri conciliari e sui cristiani in attesa di nuove vie era «aggiornamento». Aggiornamento della vita della fede legata ai tempi e prospettive nuove legate alla pastorale e alla lettura dei segni dei tempi. Aggiornamento: sembrava quasi una parola che – da una parte – voleva lasciarsi alle spalle la notte con le sue tenebre, e – dall’altra – aprirsi alla luce di un nuovo giorno. Aggiornamento: uscita dalla bocca e dalla fantasia cristiana di Giovanni XXIII in maniera quanta mai retta e verace e poi scivolata in mille rivoli nella bocca e nella fantasia fin troppo spigliata di tanti altri. Ma è fuor di dubbio che d’aggiornamento si sentiva il bisogno: nella pastorale, nella morale, nella liturgia, nella cultura, nella conoscenza della Bibbia, nei rapporto Chiesa-mondo. E già dalle prime parole del primo documento conciliare si aprì un orizzonte nuovo: «Il sacro Concilio si propone di far crescere ogni giorno più la vita cristiana tra i fedeli; di meglio adattare alle esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono soggette a mutamenti» (
Sacrosantum Concilium, n. 1). Queste ed altre affermazioni simili dei Padri conciliari, per la loro autorevolezza e universalità, furono come un grido uscito dal ventre del mondo e della Chiesa, dai Paesi ricchi e da quelli poveri, dall’Occidente e dall’Oriente. Un grido di cui si fecero portavoce, nei decenni Settanta e Ottanta, teologi, moralisti, intellettuali cristiani, politici e anche scrittori. La letteratura venne letta, analizzata o creata in prima persona anche in rapporto alla teologia e alle sue più vive e drammatiche conseguenze. Fu così che la rivista più prestigiosa e problematica di quel periodo,
Concilium, dedicò un numero monografico a tale tematica, il n. 5 del 1976. «È da molto – scriveva nell’introduzione il domenicano Jean-Pierre Jossua – che i rapporti tra la teologia e la letteratura ci appassionano. Presentivamo le ricchezze alle quali una teologia troppo dialettica, teorica e accademica è sorda, le risorse di espressioni di cui essa si priva… Bisogna aprirsi alla scoperta di ciò che le opere letterarie possono contenere di teologia esplicita o latente». Nello stesso numero di
Concilium il celebre padre Marie-Dominique Chenu sottolineava ancora: «La letteratura, in tutta la sua estensione e secondo tutti suoi generi, è l’espressione pregnante di queste molteplici densità psicologiche, sociologiche, linguistiche, culturali dei diversi raggruppamenti umani. Essa non è quindi una provocazione estrinseca ad ulteriori problemi posti al credente, essa fornisce il materiale stesso dell’acculturazione della fede». Beninteso che la letteratura ha la sua libertà e non è serva di nessuna disciplina – fosse anche la teologia; tuttavia può assumere caratteristiche legate ora alla teologia, ora alla filosofia, ora alla storia… Nel periodo che va dalla chiusura del Vaticano II fino agli anni Ottanta, quelli più vivaci, più duri e problematici e che ancora sentivano dietro i loro giorni l’ombra "invadente" del Concilio, la letteratura, quella italiana in modo particolare, si faceva portavoce di alcune problematiche religiose quali la ricerca della verità e della salvezza, l’affermazione forte della libertà personale, il difficile rapporto con l’autorità religiosa e politica, una nuova visione della fede cristiana, l’attenzione rimarcata ai poveri e ai Paesi poveri del pianeta, il rapporto Chiesa-mondo, la messa in discussione di alcuni aspetti della vita del prete o dei religiosi… Quell’atmosfera insomma che sinteticamente uno scrittore come Mario Pomilio esprimeva così: «Uscire alla grand’aria, non limitarsi a un discorso di cattolici pei cattolici… ma abbattere gli ultimi steccati elevati nei quarant’anni durante i quali i cattolici imposero il
non expedit anche alla propria presenza culturale per andare definitivamente verso il mondo (non sono forse le proposte del recente Concilio ?)». Uscire alla grand’aria! Sembrava essere un proclama, una parola d’ordine, qualcosa che univa i cattolici impegnati e forti con tutti gli altri che attendevano aggiornamenti e novità. Oltre a Pomilio, in tale atmosfera culturale e cristiana si inserirono opere di scrittori e poeti come Ignazio Silone, Giovanni Testori, Rodolfo Doni, Guido Morselli, Sergio Quinzio, Gianni Gorgianni, Dante Troisi, Davide Maria Turoldo… Scrittori cioè che raccolsero in narrativa o in poesia le inquietudini e le speranze di una società e di una Chiesa in crisi. Quel senso di rinnovamento e di aggiornamento corse nelle pagine di romanzi, di testi teatrali come
L’avventura di un povero cristiano (1968), negli anni cioè immediatamente posteriori al Concilio e in un periodo caldo dove il contrasto tra l’istituzione e la profezia sembrava estremamente evidente e quasi insanabile: la profezia è la figura di Celestino V papa, umile, docile, unico a dimettersi nella storia della Chiesa; l’Istituzione è Bonifacio VIII, il quale avrebbe operato per far dimettere il predecessore. Materia storica e religiosa molto consistente perché Silone ne facesse un dramma di grande attualità, e che sembrava riecheggiare tante affermazioni del Concilio in favore dei poveri e dei pacifici. Mentre il senso dell’attesa cristiana al di fuori dei poteri vide d’altra parte ne
Il quinto evangelio (1975) il momento più forte e coinvolgente, in cui Pomilio diede voce a tutti gli interrogativi, a tutti i miti, le leggende che animavano intellettuali e credenti: il suo romanzo costituì una grande metafora delle ansie e dei fermenti religiosi che si dibattevano in quegli anni; il «quinto evangelo» è infatti il cristiano che conosce, approfondisce e mette in pratica i quattro Vangeli canonici. Ma le modalità storiche costituiscono un problema: come mettere in pratica la fede? Ecco allora i contrasti e i drammi, nella vita dei religiosi in modo particolare.
Servo inutile, Altare vuoto e
Col cielo addosso: tre romanzi (rispettivamente del 1981, del 1989 e del 1984) cercano di entrare nelle viscere della vita e dei drammi del prete che respira ancora l’aria di rinnovamento e di aggiornamento (variamente interpretato) del Concilio. I due autori, Rodolfo Doni e il gesuita Gianni Giorgianni, affrontano il problema urgente del rapporto con l’autorità ecclesiastica, col celibato e col mondo dei preti operai. Rodolfo Doni arriva ai due romanzi dopo un’esperienza letteraria lunga, precisa e sofferta nel leggere la vita politica in rapporto alla fede cristiana. In
Servo inutile sintetizza nella vicenda di don Enrico uno spaccato della storia della Chiesa e della società anni Settanta, in cui prevale la terminologia e la logica di libertà, rifiuto, ribellione, di liberazione dalle regole. Mentre in
Altare vuoto è lo stesso don Enrico – che ha già abbandonato il ministero e si è sposato – a riflettere, a pensare con maggiore maturità e sensibilità: «Mi strazia il cuore il pensiero del mio altare vuoto e dei tanti altari vuoti sopra la terra, vuota essa stessa del suo creatore». In
Col cielo addosso Giorgianni rielabora drammaticamente l’esperienza, allora molto forte e diffusa, del lavoro manuale del prete, visto come operaio a contatto con gli altri nella fatica. Sulla scia del celebre romanzo di Cesbron
I santi vanno all’inferno (1953), Giorgianni entra nelle vicende, nelle scelte e nella crisi di tre preti operai, ponendo diversi interrogativi: è possibile una revisione del modello di Chiesa che conosciamo? Quali rischi presenta? Qual è il rapporto con l’autorità ecclesiastica? A queste pagine se ne aggiungono molte altre: quelle gridate di Testori, quelle sofferte di Quinzio, quelle riflessive di Troisi, quelle altalenanti tra «la disperazione e la speranza» di Turoldo: «Fa’ di me Signore, un fiume/ un fiume ampio, disteso/ che dal Monte si snodi flessuoso/ e poi si allarghi sulla pianura/ e sfoci e ritorni a perdersi/ dolcemente nel tuo mare».