«Anche i più grandi scienziati riconoscono ormai che l’umanità può ricorrere a due modalità per autoeliminarsi: la violenza intestina, la guerra civile su scala mondiale, ma anche la distruzione dell’ambiente necessario alla sua sopravvivenza. Questi due metodi sono evidentemente connessi. Le prime manifestazioni tragiche del cambiamento climatico, ad esempio, saranno conflitti e guerre provocati da migrazioni massicce». Il filosofo francese Jean-Pierre Dupuy, docente a Stanford, ha a lungo indagato la frontiera fra derive tecniche della volontà umana e necessità profonda del sacro. Le sue tesi non temono di sfidare molti assiomi convenzionali. Intellettuale vicino al grande antropologo René Girard, Dupuy terrà sabato al Festival della filosofia di Modena una lectio intitolata "Catastrofe e fortuna morale".
Lei difende la necessità di un "catastrofismo illuminato". Non si tratta di un paradosso?«Lo è, ma lo assumo pienamente. Si tratta di un atteggiamento filosofico che intende rompere quello che è l’ostacolo principale di ogni politica di precauzione: anche quando sappiamo che la catastrofe è davanti a noi, non crediamo a ciò che sappiamo. Non è l’incertezza che c’impedisce di agire, è l’impossibilità di credere al peggio che arriverà. Il 6 agosto 1945 è una soglia nella storia della nostra specie. L’umanità è divenuta quel giorno capace di autodistruggersi e nulla potrà più essere fatto per sottrarle quest’onnipotenza negativa. Ciò che ci ha risparmiati, a quanto pare, è la dissuasione. Ho mostrato che essa implica d’inscrivere l’apocalisse in una trascendenza fuori dal tempo, alla stregua di Dio secondo san Tommaso. La dissuasione è un gioco estremamente pericoloso che consiste nel fare un destino dell’annientamento mutuo. Dire che essa funziona significa semplicemente questo: fin quando non lo si tenta in modo sconsiderato, vi è una probabilità che il destino ci dimentichi per un tempo forse lungo, o persino molto lungo, ma non infinito. Il catastrofismo illuminato s’ispira dello stesso metodo. Ci occorre vivere con lo sguardo fissato su questo avvenimento impensabile, l’autodistruzione dell’umanità, con l’obiettivo di ritardarne la scadenza il più possibile. Siamo entrati nell’era del differimento. Il catastrofismo illuminato è un’astuzia che consiste nel fare come se fossimo vittime di un destino pur tenendo in mente che siamo la causa unica della nostra sventura».
Fino a che punto, la crisi finanziaria è stata il frutto del caso?«La condizione che rende possibile il capitalismo è che i suoi attori lo credano immortale. Il suo peccato originale è che ha bisogno di un’apertura indefinita dell’avvenire per aver la possibilità di mantenere sempre le sue promesse. È qui che si radica la sacralizzazione della crescita. Occorre che ogni attore anticipi che un’espansione si prolungherà fin nell’avvenire più lontano affinché lo Stato del sistema sia soddisfacente, restando la piena occupazione il criterio essenziale . Bernard Madoff sperava che il flusso dei suoi clienti continuasse a crescere senza sosta, gli speculatori sperano che la bolla continuerà ancora a gonfiarsi, i senzatetto americani che si sono indebitati al 100% per acquistare una casa contavano su una crescita illimitata del suo valore per poterla finanziare. La crisi, che è molto più profonda di quella del capitalismo finanziario, deriva dal fatto che questa credenza comincia ad essere seriamente erosa. Sempre più attori comprendono che il sistema è in bilico. La crisi non deve nulla al caso, anche se, su scala planetaria, è un incidente molto localizzato che l’ha innescata».
Traendo ispirazione dall’antropologia di Girard, lei sottolinea che le società contemporanee avvertono un’assenza di senso. Cosa intende? «C’è un non senso apparente. Ma credo pure che dietro il rumore e il furore, vi sia in realtà un senso nascosto, che è sempre più visibile e che il Vangelo annunciava già con queste parole terribili del Cristo: "Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada". La lezione del cristianesimo può essere compresa solo in un modo completo, il che implica che gli uomini rinuncino una volta per tutte alla loro violenza. Il Regno d’amore è come l’occhio del ciclone. Nell’occhio, regna il riposo assoluto e non la massima agitazione. Ma più ci si avvicina all’occhio, più velocemente si ruota, come un fuscello, e più è difficile raggiungerlo. Analogamente, se si cerca di raggiungere il Regno d’amore di cui Cristo è il primo a dire che non è di questo mondo, con i mezzi abituali, cioè sforzandosi sempre più di accrescere l’efficacia dei mezzi violenti per contenere la violenza, esso è ancor più irraggiungibile. O si salta a piè pari nel Regno d’amore o si muore».
Per lei, "la tecnologia che si profila, con la convergenza di tutte le discipline, mira al non controllo". Un esempio?«Si ripete spesso che la tecnica è lo strumento del sogno che Cartesio attribuisce all’uomo moderno, "divenire padrone e proprietario della natura". I critici aggiungono che questo segno è degenerato e che occorre riconquistare il "controllo del controllo". Ma ragionando così, si sbaglia epoca. Si resta prigionieri di una concezione della tecnica che vede in essa un’attività razionale, sottoposta alla logica strumentale, al calcolo dei mezzi e degli scopi. In tal modo, non si coglie l’aspetto più profondamente inedito nelle tecnologie attuali. Con la "convergenza" fra le nanotecnologie e le biotecnologie, l’uomo intende prendere il testimone dei processi biologici, partecipando alla fabbricazione della vita. Ma chi vuol fabbricare vita deve riprodurre la sua capacità essenziale, ovvero creare a propria volta qualcosa di radicalmente nuovo. Spinto in definitiva dall’ambizione d’innescare nella natura processi complessi irreversibili, l’ingegnere di domani sarà un apprendista stregone in modo volontario e non più per negligenza o incompetenza. Qualcosa di spaventoso e affascinante al contempo. La condanna o l’indignazione morale sarebbe una risposta un po’ semplicistica davanti a questa mutazione profonda della tecnologia».
Quali tipi di risorse possediamo per ridare un senso forte e umano al progresso?«Per riacquistare fiducia nell’avvenire, una società umana deve essere capace di darsi un’immagine del futuro al contempo desiderabile e sufficientemente credibile per evitare ogni scoraggiamento anticipato. Queste due condizioni definiscono un’utopia credibile ed è proprio questa capacità che abbiamo perduto in modo evidente. Possiamo ritrovarla? Sarebbe un miracolo, ma personalmente credo ai miracoli».