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Musica. Van De Sfroos: «Debutto a San Siro... con le band degli oratori»

Fulvio Fulvi mercoledì 7 giugno 2017

Il cantautore comasco Davide Van De Sfroos, 52 anni

È il “cauboi” del lago di Como, il cantautore ruspante e musicalmente raffinato di Pulènta e galèna frègia e di El Carnevaal de Schignanma anche di Yanez e Grande mistero, canzoni che ha portato con coraggio sul palcoscenico di Sanremo, oltre i confini del suo “profondo” Nord. Vincendo una sfida che sembrava perduta in partenza. Perché Davide Van De Sfroos (ma all’anagrafe del Comune di Mezzegra fa Bernasconi) è uno che abbatte i muri geografici e culturali suonando rock un po’ di contrabbando e con parole che scavano nell’anima anche di chi lumbard non è e il dialetto comasco, il cosiddetto laghée, proprio non lo afferra. Perché le emozioni passano sempre quando l’«hillbilly» lariano racconta le sue fiabe con la chitarra e la band degli Shiver, dalle sonorità country, o degli amici “Billi” e “Gnola” dall’impronta più blues, storie che si muovono tra sentimenti alterni dove si parla dell’io, di senso religioso, di personaggi da osteria e dell’amore per la propria terra.

Venerdì sera Van De Sfroos entrerà nella grande bocca di San Siro per riproporre i 30 brani più significativi della sua carriera. E già si prevede il sold out. A fargli da apripista, sul palco milanese, i tre gruppi di giovani vincitori del laboratorio musicale “Cresciuto in oratorio”, un concorso voluto dalle diocesi della Lombardia: i Neverending di Sant’Omobono Terme (Bergamo), i Watt e i Nuovo Corso Cafè di Milano si esibiranno già dal primo pomeriggio, in attesa che il loro amico Davide occupi la scena.

È stato lui a prenderli per mano, questi ragazzi, ad ascoltare con attenzione i 75 demo inviati da altrettante band che hanno mosso i primi passi nelle parrocchie e a designare le tre a cui dare l’opportunità di fargli da spalla al suo concerto. «Mi sono lasciato conquistare e l’ho fatto con gioia e soddisfazione». Sarà perché quando il giovane Bernasconi cominciò nel piccolo borgo sul lago l’oratorio non c’era e i suoi Potage (il gruppo punk delle origini) ce ne hanno messo di tempo per farsi conoscere aldilà dello specchio d’acqua, laggiù nella Bassa.

Ci sono cantanti che fanno i giudici nei talent show in televisione, lei invece ha scelto di stare dietro le quinte.

«Sa, io sono un poco orso, uno dal carattere ombroso, farei tanta fatica a fare il giudice in tv, con tutto quel chiasso... Lì devi proporre, correggere, castigare, bastonare, premiare. Non è il mio ruolo. Preferisco la magia e la libertà dell’oratorio, che ho scoperto anche grazie ai miei figli: è un’oasi dove c’è tutto, maestri di vita, divertimento, religiosità».

Qual è stato il suo criterio di valutazione di fronte alle proposte musicali che le sono state sottoposte?

«Ho cercato di essere aperto al massimo, non mi sono lasciato influenzare dai generi, più che la bravura in senso tecnico ho considerato lo spirito con il quale si sono impegnati. E ho scelto quei gruppi che secondo me sono i più rappresentativi del mondo giovanile di oggi, i più credibili, i più freschi, quelli “pop”, con testi originali di tipo cantautoriale, che sappiano provocare nel modo giusto chi li ascolta».

Quali consigli ha dato ai tre gruppi in vista del concerto?

«Ho detto a tutti: lo stadio è vostro, tirate fuori gli attributi, fate un bel respiro e divertitevi, qualunque cosa deciderete di fare nella vostra vita ricorderete questo evento come qualcosa di bello che vi ha dato energia positiva».

È giusto non illuderli, la strada del successo è tutta in salita...

«Non si sa come andrà a finire, se avranno la possibilità di fare i musicisti come professione oppure si ritroveranno a lavorare come bancari, giardinieri, casellanti. L’importante, per essere davvero felici, è essere sempre liberi di esprimere le proprie idee e attenti a seguire quella vocina dentro di sé che ti fa capire dove devi andare, qual è il tuo baricentro. La vera passione quando c’è si fa sentire. La musica però non deve diventare padrona assoluta della propria esistenza, sennò si perde l’umanità».

Insomma, non c’è una ricetta per essere vincenti.

«Direi di no. Nella vita si può vincere o perdere, momento per momento. Ma non bisogna avere paura dei fallimenti. Perché spesso chi perde è avvantaggiato, soprattutto dal punto di vista emotivo. E allora può ricominciare la lotta per la vittoria. Che poi significa essere se stessi fino in fondo e non avere più timore di fare le cose».

Ma secondo lei a chi devono dare retta oggi i giovani che vorrebbero realizzare le proprie aspettative ma sono spesso frustrati a causa della disoccupazione e dell’indifferenza di chi non li sa capire?

«Ho incontrato papa Francesco. È l’esempio più bello ed efficace di educatore, è uno che non bara, è sceso in campo, si è messo di fronte agli uomini dialogando in modo diretto e sincero, senza pregiudizi. È uno che ama la libertà. Dobbiamo imparare da lui».