La voce, appena velata dall’ombra, è un dolce solfeggio di stoffe, di pizzi. Sembra il riflesso, sfuggito a se stesso, di un esile strascico d’abito prestato al passato. Adesso, presa da soffice assillo, langue, urge, inclina, s’impiglia. Trascina (o si fa trascinare?), quasi andasse a mutare l’accento, la posa, la rosa affogata nel pozzo ormai sazio, lì dove anche lo spazio appassisce, già orfano di fondo. Persino il fraseggio più acceso, il consiglio che sfiora improvviso l’acuto («Intervisti la Insana, la prego, che è più brava di me…»), in lei sorprende e ci ammalia, nel suo caldo affiorare di lana. Patrizia Valduga lo sa: mentre la lingua lenisce qualche piaga lontana, qualche strappo a cui ago non giova, si fodera l’ugola e reclama altra cura, altro canto ingrottato nell’antro vocale, come un raro fiore rappreso o un’anima ghiaccia, che ancora immobile attende, oltre il buio, l'eterno tepore del raggio.
«Dolore della mente è il mio dolore… / Per il mio mondo… e per l’altro maggiore…». Da quali preoccupazioni o ansie di ordine teologico è afflitta? «Nessuna. Il mondo maggiore è il mondo degli altri, di tutti gli altri esseri umani che popolano 'quest’atomo opaco del Male', per citare Pascoli».
I versi sopracitati risalgono a più di vent’anni fa. Da allora, è cambiato qualcosa nel suo atteggiamento di fronte al mondo e agli affetti personali? «Adesso sono disperatamente sola. Le tre persone che più ho amato e amo al mondo – mio padre, mia madre e Giovanni Raboni – non ci sono più».
«Ma credimi, tesoro, che non voglio rubartelo / l’osso del tuo dolore ». Così scrive Giovanni Raboni (da «A tanto caro sangue», 1988). Il dolore, in realtà, è anche una componente essenziale della sua vita e del suo modo di essere poeta. Senza il dolore, esisterebbe Patrizia Valduga? «Il dolore è una componente essenziale di ogni essere umano. Ma il dolore che si prova per sé, è un po’ ripugnante, è egoistico. Quello che si prova per gli altri è il vero dolore, e ci fa più grandi di noi».
Raboni li ha scritti per lei questi versi?«Sì, e mi fanno male. 'Rodon gli ossi i lor ossi / non cessano di rodere i lor ossi'… E questo è D’Annunzio… Mi ha trattata come un cane… E certo aveva ragione: nel mio cieco egoismo, devo essere stata insopportabile».
Come vive oggi, la «donna di dolori »?«Come sempre, come può, morentemente ».
Che idea ha dell’inferno? E del paradiso? «L’inferno è non sapere chi si è, cosa si ha, cosa si sa fare. Il paradiso è Schubert, il
Tristano di Wa
gner, e anche la Walchiria , Dreyer, Flaubert, Proust…». In questo mondo, ne ha già avuto qualche anticipo? In quale occasione? «Ogni giorno posso visitare l’uno e l’altro». Scrittore di grande talento, che come lei si è abbeverato alla fonte copiosa della letteratura barocca reinventandosi uno stile personalissimo, Giorgio Manganelli è autore di una raccolta intitolata «Centuria », stavolta non in versi ma in prosa. L’ha conosciuto? Ha avuto modo di frequentarlo o di apprezzarne le qualità letterarie? «Me lo ha fatto conoscere Toti Scialoja. Ci ha invitati a cena, e poi si è un po’ arrabbiato perché non abbiamo fatto che parlare tra di noi. Ha letto Bartoli? E lei conosce Pona? Cosa pensa di Lubrano? Che edizione possiede di Tesauro? E così non ci ha più fatto incontrare. Ci siamo scritti, mi pare di ricordare, ma dovrei guardare le vecchie lettere e non me la sento, mi si stringe il cuore». E di Céline, a parte i famosi tre puntini di sospensione, che cosa l’ha affascinata di più? «Mi sono laureata su Céline. L’ho amato molto. È l’io lirico narrante a ruota libera. Oggi ce ne sono troppi in giro, e senza il suo talento». Ha mai scritto testi per musica o lavorato a stretto contatto con i musicisti? «No, mai. E mi piacerebbe». Potrebbe descriverci il piacere che le deriva dalla lettura ad alta voce di composizioni in versi firmate da lei o da altri poeti? Che rapporto ha con il suo strumento vocale? «Non mi dà piacere leggere i miei versi: dopo un po’ mi annoio, e mi viene un colpo di sonno. Invece, recitare Raboni, o Pascoli, o Manzoni mi dà una grande gioia, la gioia di comunicare – a me prima che agli altri – pensieri e emozioni che coincidono nella perfezione della forma». Di quali poesie – sue o altrui – non potrebbe fare assolutamente a meno? Perché? «Delle mie faccio a meno con piacere. Di quelle dei poeti che ho appena nominato, non potrei fare a meno: sono i miei fondamenti». Come nasce una sua poesia? Le affiora dapprincipio alla superficie delle labbra, oppure comincia a premere impaziente sulla punta della penna? «C’è una quartina di Omar Khayyâm, poeta persiano del 1100, che dice: 'Quando sono sobrio, la Gioia mi è velata e nascosta, / quando sono ubriaco, perde ogni coscienza la mente, / ma c’è un momento, in mezzo, fra sobrietà ed ebrezza, / per quello darei ogni cosa, quello è la vita vera!'. I fisici chiamano 'punto di sella' il punto in cui due sistemi contrapposti stanno in equilibrio. Il momento meraviglioso di cui parla Khayyâm è un punto di sella, fra due logiche, quella razionale della veglia e quella irrazionale dell’inconscio. Scrivo quando sono nel punto di sella. E succede quando succede».Ritiene che il posto migliore in cui possa alloggiare una poesia sia ancora lo spazio bianco di una pagina a stampa? Che opinione ha, invece, di quello virtuale e delle nuove opportunità offerte dal web? «Non importa con quale mezzo arrivano i versi nella mente dei lettori: è lì che devono arrivare, è quello il loro posto, l’unico che li tiene in vita». In passato, ha fatto parte della giuria di qualche concorso di poesia? Che impressioni ne ha tratto? «Per la verità non sono mai stata in una giuria. Non me l’hanno mai chiesto. Sì, Alfredo De Palchi me l’aveva domandato, qualche anno fa. Ma erano versi di esordienti, e ho rifiutato».Esiste un metodo, una prassi condivisa per misurare il talento di un poeta? «Bisogna avere letto tutti i grandi poeti – anche i piccoli – per poter parlare con fondamento di poesia». Nel Libro delle laudi affiorano passi in cui lei se la prende, con accenti piuttosto viscerali, contro i giornalisti e la loro 'prosaglia'. Li ritiene davvero così ignoranti da non saper distinguere, tra l’altro, il valore di un poeta o di uno scrittore di razza da quello di un dozzinale imbrattacarte? «Sì. Non ne posso più di sentir dire 'il poeta civile Giorgio Gaber', o 'la grande poetessa Alda Merini'… E come dobbiamo definire allora Sereni, Luzi, Betocchi? Cambiamo argomento, per favore, perché divento rabbiosa».Ci sono poesie che non finiscono, che chiedono di essere continuate all’infinito e di esistere persino dopo la loro apparente conclusione? Le è capitato?«Non so rispondere. So che ci sono temi che tornano, ostinatamente, anche quando non si vorrebbe, come i sogni – o gli incubi – ricorrenti ».Lei non appartiene certo a quel genere di poeti che compongono versi con metodo, quotidianamente. Piuttosto – mi pare – ama lasciarsi trascinare dal raptus creativo, dal furor dell’ispirazione che arriva all’improvviso e poi, magari, altrettanto inaspettatamente, tace per anni. Come impiega il tempo in quei periodi di silenzio più o meno lunghi che separano un momento di intensa attività poetica dall’altro? «Ho un lavoro, come tutti: sono una pubblicista, ho delle piccole collaborazioni. E mi capita ancora di fare delle traduzioni. Quando non ho proprio niente da fare, rileggo i prediletti, e la sera bevo vino con gli amici».