Val Bregaglia. Si sgretolano i monti degli artisti
La frana a Pizzo Cengalo
È stata sospesa in Val Bondasca, laterale della Val Bregaglia, nel territorio grigionese della Svizzera, la ricerca delle otto persone disperse da mercoledì dopo la frana staccatasi dal Pizzo Cengalo. Si tratta di quattro cittadini tedeschi, due austriaci e due svizzeri. In alcune zone sono invece ricominciati ieri i lavori più urgenti di messa in sicurezza, in seguito alla nuova colata di fango che due giorni fa ha raggiunto il villaggio di Bondo. A causa del secondo smottamento, alcuni abitanti di Bondo, che erano da poco rientrati nelle loro case dopo essere stati fatti sfollare nei giorni precedenti, hanno dovuto abbandonare nuovamente le abitazioni. Nessuno è rimasto ferito. L’allerta resta tuttavia alta. «Il rischio per Bondo è ancora elevato», ha detto il geologo del canton Grigioni Andreas Huwiler. La quantità di materiale instabile che potrebbe scivolare verso valle in qualunque momento è assai cospicua e «il pericolo potrebbe aumentare in caso di piogge insistenti». Secondo Huwiler lo scioglimento del permafrost – i ghiacci perenni intaccati dal riscaldamento globale – non è l’unico motivo dello smottamento.
Fosse per loro le pietre non finirebbero mai di crollare. Lo stupore è vederle ancora, inverno dopo inverno, là in alto, una sull’altra a dialogare con il ghiaccio, la neve, il gelo, il sole e il calore. Stanche, a volte, capita loro di adagiarsi verso le valli che nei millenni colmeranno, ignare che da qualche altra parte altre montagne stanno crescendo.
Quelle pietre verranno prese da uno come Alberto Giacometti e trasformate nell’immagine dell’umano che si alza e cammina e, seppure incerto, sembra non dover precipitare mai. Come loro. Ma quando cadono non vedono più nessuno e non tengono più conto delle orme che uomini imperfetti e fragili hanno piantato nelle loro fessure, come ferite cui appoggiarsi e attraverso le quali salire, salire e ancora salire fino a toccare il cielo contro cui si stagliano a ogni alba e a ogni tramonto.
La valanga di detriti provocata dalla parete nord-est del Pizzo Cengalo, nel cuore delle Alpi centrali, ha sommerso Bondo e travolto delle persone, otto attualmente sono disperse e altre si sono salvate fuggendo appena in tempo. Un paesino svizzero della Val Bregaglia. Da tempo la montagna franava, ma non in modo così importante come si è verificato il 23 agosto. Sulla nord-est, visibile da Soglio il paese caro alla famiglia artistica dei Giacometti, di fronte, ma più in alto, a Bondo, il paese dove si era rifugiato Varlin, esisteva, come sanno esistere le vie tracciate dagli uomini sulle creste aeree, una via invernale di ghiaccio e misto aperta da Giuseppe Miotti e Tarcisio Fazzini, guide alpine. Una parete tra le più alte ed estese di tutte le Alpi Retiche.
La Retia è un punto focale dell’Europa. Fornisce l’acqua ai tre grandi bacini idrografici: attraverso l’Inn (En in romancio puter la lingua della Bregaglia e dell’Engadina) al bacino danubiano; l’Adda a quello padano e al Reno. Le acque di quelle altezze si disperdono nelle culture che si incrociano in valli così diverse da ricomporsi solo dopo la lotta per il riconoscimento che la nostra Europa ha combattuto proprio con sé stessa prima che con gli altri.
Gli artisti della Val Bregaglia (Giacometti, Giovanni Segantini, Willy Guggenheim alias Varlin), valle che parla italiano ma conosce tutto il resto, hanno incrociato gli sguardi tra quei graniti e quelle rocce hanno finito per riflettere i loro. Viene da pensare che siano stati scolpiti da loro o abbiano preso la forma che loro volevano, nello sforzo supremo e imponente che l’espressione della loro arte consentiva.
Di Varlin, Friedrich Dürrenmatt ha scritto che «nelle sue ultime opere la vita si ribellava, esse contenevano una forma di ribellione in sé contro l’entropia, contro la tendenza della materia di decadere nel suo naturalissimo ordine, ovvero nel suo disordine». Sulla tela fissava, secondo il grande scrittore, «la propria decadenza». Morto nel 1977, quella decadenza mostrava ancora tutta la sua forza, la sua prepotente necessità. «Le campane suonarono quando la bara fu portata fuori dalla casa dove il cane stava di nuovo guaendo, e si fermarono solo quando la bara venne calata nella fossa. Il giorno dopo il funerale passai da solo per il paese. L’entrata principale del cimitero era chiusa e non riuscii a trovare quella secondaria. Andai all’atelier; anche qui non fu possibile entrare. Sulla porta era affisso un biglietto con la calligrafia di Varlin: “Chiuso per ferie”».
Non so in che stato versi il cimitero di Bondo, ma se qualche pietra del Cengalo l’ha sfiorato credo che l’atelier di Varlin sia pronto a riaprirsi per coloro per i quali la realtà non è ciò che è ma quel relitto di cime che spaventosamente scendono a valle.