La storia. Urania, la grande famiglia del basket
Nik Raivio, 33 anni, il primo straniero nella storia dell’Urania Milano, in azione contro Ferrara / Stefano Gariboldi
In principio erano i canestri dell’oratorio della parrocchia di Santa Maria del Suffragio a Milano. Oggi invece il nuovo “paradiso” dell’Urania Basket è il Palalido, lo storico impianto meneghino che dopo l’ultimo rifacimento appare come un’imponente astronave targata Allianz. A suggellare di fatto l’impresa “spaziale” del club milanese approdato nella prestigiosa orbita della serie A2 della nostra pallacanestro. Tre promozioni in nove anni, una cavalcata entusiasmante che non ha bisogno di tanti aggettivi, la si legge sul volto felice del presidente, il 49enne Ettore Cremascoli. Gioviale e ironico, il primo “tifoso” del club guarda soddisfatto al futuro mentre qui, nella palestra “secondaria” del Palalido, si allenano al pomeriggio i più piccoli. «Quest’anno abbiamo una squadra in tutte le categorie. Dal minibasket all’Under 18 seguiamo 400 bambini e ragazzi. Facciamo corsi nelle scuole e possiamo contare sul lavoro eccellente di ottimi allenatori». Le voci e il pallone rimbombano, ma più forte è l’eco del passato. L’assist lo forniscono anche le tante canotte e magliette delle squadre statunitensi indossate dai ragazzi. Perché il fascino del basket a stelle e strisce è all’origine di questa singolare società fondata nel 1952.
Decisivo fu infatti un viaggio negli States di alcuni amici dell’oratorio milanese: rimasti folgorati da una squadra dei college americani vollero importarne sia i colori, il rosso e il blu su fondo bianco, che il soprannome Wildcats, ossia “gatti selvatici”. Forse la mascotte dell’ateneo dell’Arizona, ma con più probabilità quella di Villanova, il college fondato dai padri agostiniani. Una nascita che sconfina nel mito, visto che anche il nome “Urania” è ispirato a una musa. «Mio padre Luigi è uno dei fondatori - spiega Cremascoli - e io ho da giocatore ho indossato solo la canotta dell’Urania facendo tutta la trafila dalle giovanili alla prima squadra. Ho vissuto l’oratorio sin da bambino anche perché era coinvolta tutta la famiglia di papà che aveva dieci fratelli. Soprattutto gli zii, i suoi cinque fratelli maschi, erano grandi attivisti». Il libro dei ricordi è molto ricco: «A cominciare dalla diatriba sul campo: quello da basket tagliava in due quello da calcio… per cui si entrava facilmente in collisione su chi dovesse giocare. Ci allenavamo con tutte le condizioni atmosferiche, solo la neve forse riusciva a fermarci. La prima sede del club era nel campanile, salendo su per le scale che conducevano alle campane… Ma indelebile è la messa delle 10, fondamentale per essere convocati. Tutti in tuta sotto gli occhi dei dirigenti di allora. Finita la messa si scendeva in campo per la partita… Grandi meriti nella storia dell’Urania hanno Alfonso Angrisano che è stato mio allenatore e poi presidente, e anche il parroco di allora don Erminio De Scalzi che si è prodigato molto per mettere a posto le strutture. È stato un periodo incredibile per noi ragazzi, chi potrà mai dimenticare quel tombino in mezzo al campo su cui spesso si scivolava… o le pozzanghere… bellissimo».
Da giocatore a presidente però la passione è sempre la stessa: «Anche se devo ammettere che grazie ai ragazzi oggi mi emoziono di più. Ricopro questo ruolo da cinquesei anni prima di me c’era mio cugino: non è facile oggi trovare qualcuno che voglia presiedere un’associazione sportiva, bisogna farsi carico di tante responsabilità. Mi piacerebbe vivere di questo, ma ancora non è possibile, per cui devo fare anche altro: vendo apparecchiature elettromedicali agli ospedali. Però i giocatori a questi livelli sono professionisti e lo fanno come lavoro, anche se molti dei nostri studiano anche all’univer- sità». La ricerca del main sponsor per ora non è un problema: «Abbiamo molti interessati e tanti ci stanno già dando una mano. Siamo soddisfatti dei numeri che stiamo facendo: quest’anno abbiamo 500 abbonati, niente male visto che l’anno scorso giocavamo in un palazzetto da 350 posti. L’obiettivo è portare 2mila persone al Palalido, nelle prime gare ci siamo andati vicino. Sperando sempre di non giocare in concomitanza con le partite di calcio, quelle sì ci penalizzano un po’…».
Tanti già i momenti da incorniciare: «Potrei dire la vittoria l’anno scorso a Montecatini che ci ha dato la promozione. O la prima vittoria in A2. Ma nulla è paragonabile all’esordio al Palalido, sia nell’amichevole con l’Olimpia che nella prima gara in casa in campionato: per chi ha giocato a basket ed è cresciuto a Milano entrare in questo storico impianto con la “tua” squadra è qualcosa di incredibile». L’Urania oggi è diventata la seconda squadra della città e sono in tanti a sognare il derby che negli anni Settanta e Ottanta infiammò la rivalità tra Olimpia e Pallacanestro Milano. «Non scherziamo - taglia corto il patron - l’Olimpia è di un altro livello, con ben altro budget. Abbiamo un bellissimo rapporto di collaborazione, soprattutto per le giovanili e anche Filippo, il figlio del coach Ettore Messina gioca con noi. È stato fantastico affrontarli in amichevole un’iniziativa voluta da loro che ci ha fatto enorme piacere perché ci ha dato tanta visibilità. Speriamo ce ne sia presto un’altra. Ma stima e grande collaborazione c’è anche con l’attuale Pallacanestro Milano che adesso milita in serie C gold». E tuttavia sognare grandi traguardi si può: «Io ci credo nei playoff. È vero abbiamo perso qualche partita ma ce la siamo sempre giocata. Il campionato è molto equilibrato. La salvezza è il primo obiettivo, oltre a quello di confermarci a lungo in questa categoria, ma il sogno dei playoff è possibile. Posso contare su un gruppo validissimo e affiatato, dal general manager Luca Biganzoli al coach Davide Villa, giovane che fa un basket divertente».
Poi la strada tracciata va oltre anche i risultati: «La mia più grande aspirazione è fare della società un posto dove si sta bene e i ragazzi abbiano un percorso di crescita. La soddisfazione più grande me la danno gli ex giocatori quando mi chiamano per dirmi che da noi hanno vissuto un periodo indimenticabile e lo dicono a tutti». Ciò che conta viene trasmesso da subito ai più piccoli: «I ragazzi che vengono da noi sanno che per noi prima del basket viene altro: famiglia e studio per esempio. Poi certo nel giocare devi essere serio e allenarti bene. Se prendi un impegno devi mantenerlo, perché è così anche nella vita. I principi dello sport sono basilari, vincere non basta: occorre farlo in un certo modo. È quello che cerchiamo di insegnare nei campi estivi e nei progetti che portiamo avanti. C’è da sempre un legame con la comunità di recupero fondata da don Mazzi e non è un caso se la festa di fine anno la facciamo sempre lì con loro al Parco Lambro». Tutti coinvolti, a cominciare dai tifosi, molto speciali: «Noi non abbiamo ultrà. La nostra tifoseria è giovane ed è fatta di amici, da padri e figli, da parenti e amici di parenti. Ci conosciamo quasi tutti, perché ci sentiamo parte di un’unica grande famiglia».