Un annuncio apparso il 6 novembre 1845 sul
New York Daily Tribune avvisava: «Cani per negri. Il sottoscritto avendo acquistato tutta la muta di cani segugi da caccia ai negri, propone di dedicarsi alla caccia e alla cattura dei negri in fuga. I prezzi sono tre dollari per ogni giorno di caccia e quindici dollari per la cattura del fuggiasco». Questi eredi dei "cani divoratori di neri" che, nei Caraibi, venivano addestrati alla caccia degli schiavi fuggiaschi, incarnano efficacemente il simbolo di una pratica che, con caratteristiche e giustificazioni filosofiche differenti, ritorna come un inquietante filo rosso lungo tutta la storia dell’umanità: la caccia all’uomo. Dal "bue bipede" che nella società greca rappresentava la vittima da ridurre in schiavitù, fino agli zingari braccati ancora nelle nostre città, passando per gli indios e i pellerossa, gli schiavi neri e i poveri presi d’assalto nell’Europa moderna, e ancora gli ebrei e i migranti: le prede umane di queste oscene battute di caccia assumono nei secoli volti diversi. Nel suo ultimo libro Grégoire Chamayou, professore associato di Filosofia e ricercatore dell’istituto Max Planck di Berlino, ha cercato di tratteggiare questi volti, spesso offuscati dalle dimenticanze della storia, ma anche di analizzare le teorie filosofiche e le visioni antropologiche che hanno agevolato e giustificato il latrare delle mute all’inseguimento di esseri umani.
Le cacce all’uomo. Storia e filosofia del potere cinegetico (Manifestolibri, pagine 176, euro 22,00; traduzione di Marco Bascetta) prende così le mosse dalla teorizzazione aristotelica della caccia agli "schiavi per natura" e analizza la secolare ricerca di un segno dal quale riconoscere tali schiavi. Un segno che «gli scienziati moderni scoprirono infine – scrive Chamayou, che cita le parole di Jules Barthélemy-Saint-Hilaire –: "La natura ha servito meglio i padroni moderni degli antichi. Il colore della pelle è un segno che nessuno può fraintendere"». In pieno Secolo dei Lumi, il dibattito sulla caccia e la tratta degli schiavi neri era aperto. Scriveva lo stesso Voltaire: «Ci si rimprovera questo commercio, ma un popolo che vende i suoi figli è ancora più condannabile dell’acquirente: questo negozio dimostra la nostra superiorità». Hegel – è noto – rincarerà la dose: «In precedenza gli schiavi venivano divorati quando venivano catturati in guerra; oggi, almeno, sono venduti a degli uomini». Ma mentre in America impazza la caccia agli indios e poi ai pellerossa, e in Africa quella agli schiavi, in Europa prende piede un nuovo tipo di inseguimento: quello a poveri, mendicanti e gitani, catturati e costretti a lavorare in cambio dell’assistenza che ricevono. Alla fine del Settecento, questa pratica è istituzionalizzata in tutta Europa, dalla Francia alla Germania alla Danimarca. Grazie a un’interessante documentazione dell’epoca – nella quale la terminologia che si rifà all’arte cinegetica lascia impressionati – l’autore ricostruisce come, pian piano, la funzione della caccia a "mendicanti e malfattori", riuniti in un’unica categoria, diventi appannaggio della polizia. Alfonse Bertillon, fondatore nel 1870 del primo laboratorio d’identificazione criminale basata sull’antropometria, salutava «un primo passo verso una polizia scientifica dove le conoscenze tecniche della caccia all’uomo saranno coordinate». Da qui, il percorso verso la formazione della categoria del "nemico pubblico numero uno" è breve. A cominciare dagli Stati Uniti degli anni Trenta, quando la stampa definiva l’inseguimento all’evaso Dillinger come «la più grande caccia all’uomo negli annali criminali contemporanei». Anche il più eclatante e tragico esempio di violenza genocidaria del Novecento, la Shoah degli ebrei, rientra in questo quadro. Se lungo la storia, per Chamayou, l’antisemitismo ricorre come «diversivo offerto alla collera sociale», alla vigilia del nazismo si verificarono condizioni peculiari: «Per una piccola borghesia che viveva nell’ossessione di una degenerazione razziale, l’ideale della caccia appariva diffusamente come il mezzo di una rigenerazione fisica e morale». Non è un caso che Göring andasse particolarmente fiero del suo soprannome di "Reichsjägermeister": "Gran cacciatore del Reich". Chamayou si rifà alla riflessione di Hannah Arendt sull’apolide, espulso dall’ordine protettore dello Stato-nazione, per collegarsi alla condizione in cui, ai giorni nostri, si ritrovano i migranti
sans-papiers, «il cui statuto raccoglie quattro grandi caratteristiche: criminalizzazione dell’esistenza, inflazione del controllo poliziesco, esclusione dai diritti umani e morte cartacea». Questa nuova forma di "proscrizione legale" è «il prodotto storico di politiche di illegalizzazione dei migranti, di cui si può seguire la progressione, legge dopo legge, nella maggior parte degli Stati del Nord a partire dagli anni ’70». Per l’autore, «l’identificazione della sfera della protezione legittima con il gruppo degli autoctoni, che questo avvenga secondo la modalità biopolitica della razza, quella storico-culturale dell’identità nazionale o quella politico-amministrativa del permesso di soggiorno, finisce necessariamente col creare popolazioni abbandonate», esposte alla violenza dei propri simili. La storia di tali violenze, dunque, suggerisce un’indicazione essenziale su quella che dovrebbe essere la vocazione di una comunità politica universale: garantire una protezione collettiva contro queste cacce di uomini contro altri uomini.