I colpi del bastone sulle rocce bianche erano l’unico rumore che accompagnava i passi incerti di Giuseppe Ungaretti quasi ottantenne, tornato sul Carso per la prima volta dopo cinquant’anni dalla Grande Guerra. Era il 20 maggio 1966, esattamente oggi cinquant’anni fa.Chi lo accompagnava non osava interrompere il suo silenzio. Il poeta dalle poche parole si guardava attorno, posava gli occhi sulle stesse cime e trincee in cui mezzo secolo prima aveva visto la pietra farsi rossa di sangue e nelle notti a fargli compagnia era stato il «compagno massacrato con la bocca digrignata volta al plenilunio» (Veglia). Alla fine aveva scosso la testa incredulo: «È incredibile, questo non è più il Carso dove combattevo io... oggi appare ridente, quella volta non c’era una foglia!». Dall’inverno del 1916 al maggio del 1966 non era solo la primavera a trasformare il paesaggio, ma la consapevolezza – quel giorno ancora più forte – della guerra come inutile follia. Una consapevolezza che Ungaretti aveva già scoperto durante la sofferenza dei combattimenti e poi maturato negli anni, ma che a Gorizia, nell’emozione profonda di quel ritorno, prendeva la forza di un testamento spirituale e lasciava nella città un segno indelebile.Nel centenario de Il porto sepolto, sua prima raccolta di poesie, e nel cinquantenario dall’unico ritorno del poeta sulle sue trincee, l’Istituto per gli Incontri culturali mitteleuropei (Icm) di Gorizia organizza domani pomeriggio – entro la grande cornice del festival culturale èStoria – l’incontro «Ungaretti sul Carso e a Gorizia: 1916-1966», dando la parola agli ultimi due testimoni di quel giorno. «Ungaretti aderì con gratitudine all’invito dell’Istituto. Il 20 e il 21 maggio lo portammo a rivedere i luoghi dove erano nate le sue più famose poesie e per lui fu un’emozione tangibile», racconta Sergio Tavano, classe 1928, già docente di Storia dell’arte e Archeologia all’università di Trieste.«Era venuto come ospite d’onore del primo Incontro culturale mitteleuropeo, cui partecipavano i massimi poeti e scrittori di sei nazioni, ma al tavolo del convegno restò molto poco, più ansioso di rivedere il monte San Michele o San Martino del Carso», ricorda Renato Tubaro, ultimo sopravvissuto dei cinque giovani goriziani animati da grandi ideali che proprio in quel 1966 fondarono l’Istituto e gettarono molte basi di quella Europa senza muri che all’epoca, più ancora che oggi, pareva assoluta utopia.Per comprendere la portata dell’evento, va detto ciò che tuttora molti non sanno, e cioè che Gorizia dal 1947 aveva il suo Muro, come Berlino: mentre il resto d’Italia e del mondo da due anni assaporava la pace e la rinascita, la città giuliana veniva violentata da un confine artificiale italo-jugoslavo che tagliava in due le case, gli orti, persino il cimitero, ma soprattutto le amicizie, gli amori, le famiglie. Un muro che fisicamente fu abbattuto solo nel 2004 con l’ingresso della Slovenia in Europa. «Il 15 settembre 1947, giorno in cui vidi gli americani con la calce bianca tracciare quel confine, l’ho attraversato l’ultima volta piangendo – ricorda Tavano –. Gorizia nella storia era sempre stata altissimo esempio di pluralità culturale nelle sue componenti etniche e linguistiche. Quel giorno la nostra chiesa rimase in Jugoslavia, insieme ai miei amici, italiani e sloveni».È in questa Gorizia che nel 1966 nasce la scintilla degli Incontri mitteleuropei, in 50 anni passati dai primi sei Paesi aderenti (Italia, Austria, Cecoslovacchia, Germania Ovest, Ungheria, Jugoslavia) agli attuali trenta. «L’idea venne al gesuita fiumano padre Sergio Katunarich – precisa Nicolò Fornasir, vicepresidente dell’Istituto –: il "muro" goriziano fisicamente c’era ancora, ma nei fatti era appena crollato grazie alle lettere che il giovane sindaco di Gorizia, Michele Martina, aveva inviato ai sindaci di Nova Gorica e Lubiana. Ora però bisognava demolire anche quello "di Berlino", cioè la cortina di ferro tra Europa dell’Ovest e dell’Est, e per questo padre Katunarich si rivolse a 5 giovani cattolici della Dc goriziana, tra i quali proprio Renato Tubaro e il sindaco Martina».Gli Incontri mitteleuropei non guardavano quindi con nostalgia alla Gorizia austroungarica, anzi profetizzavano l’Europa del futuro e richiamavano in città gli umanisti internazionali: la poesia abbatteva i muri della politica. Ungaretti tenne a battesimo il primo di questi convegni, cui per l’Italia partecipavano Mario Luzi, Andrea Zanzotto, Fulvio Tomizza, Biagio Marin. La sua presenza fu significativa per le pagine che il 20 maggio lasciò scritte: «Il Carso non è più un inferno, è il verde della speranza...».«Partiva da un dato paesaggistico – sottolinea Tavano – ma in realtà riproponeva la tematica della fratellanza», parola tremula e palpitante già in tanti versi scritti in trincea, rivolti anche al nemico. Per Ungaretti 50 anni dopo Gorizia era l’occasione di una rinascita umana e civile, «portandolo in giro per il Carso l’abbiamo visto proprio consolato. Stringato come nelle poesie, pensava a lungo e poi sillabava poche parole, le soppesava».Così lo ricorda al Sacrario di Redipuglia, dove centomila caduti della Grande Guerra sono sepolti nella grandiosa gradinata che porta al cielo, cadenzata dalla parola "Presente" scolpita mille volte: «Per qualche minuto guardò in alto, poi scandì tre volte "No, no no. La morte è più semplice". Lui aveva sperimentato la vera guerra, scarna, di pietra, cruda come il Carso, e quella glorificazione a posteriori non la descriveva». Poi, guardando le tombe, aveva scosso la testa: «Li hanno messi in fila anche dopo morti...».A Gorizia nel 1966 dedicò pagine memorabili quanto sconosciute. «Gorizia non era il nome d’una vittoria – scrisse –, ma il nome di una comune sofferenza, la nostra e quella di chi ci stava di fronte e che dicevano nemico, ma che noi, pur facendo senza viltà il nostro cieco dovere, chiamavamo nel nostro cuore fratello [...]. Non esistono vittorie sulla terra se non per illusione sacrilega». E ancora: «Qui sul Carso, quando mi cavavo dall’anima le parole, le mie povere parole, non sbagliavo. Ero solo, in mezzo ad altro uomini soli [...]. Fu allora che, per guarirci dall’ossessione della fragilità, riudimmo nascere e crescere nell’anima la forza vera, quella che può muoversi inerme e incolume anche in mezzo al mietere della morte»: quel «sentimento ancora tremulo che ogni uomo è, quando non tradisce se stesso: il fratello di qualsiasi uomo». «Di che reggimento siete / fratelli? / Parola tremante / nella notte / Foglia appena nata / Nell’aria spasimante / involontaria rivolta / dell’uomo presente alla sua / fragilità», aveva scritto 50 anni prima in Fratelli. «Sul San Michele qualcuno gli chiese quanti austriaci avesse ucciso – testimonia Tubaro – e lui: "No, per carità! Dovevamo sparare, a sera ci controllavano le cartucce nella giberna, ma io miravo sempre dove non c’erano soldati". Il suo messaggio segnò la vita dell’Istituto». Il giorno dopo lasciò per sempre Gorizia, non più solo città, ma «segno d’una speranza di fraternità finalmente raggiunta tra gli uomini».