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Anniversario. Il Museo Egizio festeggia i 200 anni con un docufilm

Lucia Bellaspiga venerdì 8 marzo 2024

l’attore Jeremy Irons, voce narrante del doc

«Non affannare il tuo cuore, il pianto non salva dalla tomba. Rallegrati, invece, finché vivi: non c’è chi porta con sé i propri beni, non torna chi se n’è andato, nessuno viene di là a tranquillizzarci ». È forse questo il riassunto più intenso del film “Uomini e Dei. Le meraviglie del Museo Egizio”, nelle sale il 12 e 13 marzo, con la partecipazione straordinaria del premio Oscar Jeremy Irons.

È lo stesso direttore del museo di Torino, Christian Greco, a recitare, nel documentario, i versi del “Canto dell’arpista”, da un papiro scritto a mano millenni fa. Perché in fondo il film, dedicato ai 200 anni del più antico museo egizio al mondo, questo è: un viaggio nei dilemmi di un popolo sempre in bilico tra amore per la vita e tensione verso la morte, esistenza terrena e ansia di immortalità.

Fondato nel 1824 per accogliere l’immenso patrimonio di statue, mummie e oggetti quotidiani che Bernardino Drovetti, console di Napoleone in Egitto, vendette ai Savoia per ben 400mila lire (un terzo del bilancio del regno sabaudo), il museo di Torino è il secondo per ricchezza dopo quello del Cairo (nato però nel 1901). E grazie alle successive campagne archeologiche sul Nilo promosse da Ernesto Schiaparelli e Giulio Farina, oggi custodisce 40mila reperti di eccezionale valore. È tra questi che si muove Jeremy Irons, viso scavato e abito scuro, sorta di guida nell’oltretomba con il compito di suscitare emozioni.

Una sequenzadel docufilm “Uomini e Dei. Le meraviglie del Museo Egizio”, lo splendido complesso musealeche compie200 anni - .

Filo conduttore è la storia vera di due coniugi innamorati, che tutto avrebbero immaginato meno di diventare, in un futuro lontanissimo, protagonisti di una cosa chiamata film: l’architetto Kha, sovrintendente alla costruzione delle tombe dei faraoni, e sua moglie Merit, conservati a Torino assieme al celebre corredo funebre. Era il 15 febbraio del 1906 quando la fioca luce delle lampade a petrolio illuminò sotto il deserto, davanti agli occhi eccitati di Schiaparelli, prima una porta di legno chiusa da millenni, poi al di là di questa la tomba intatta dei due amanti.

«È come salire in una capsula del tempo», osserva Greco, ed è così perché i 467 oggetti che li avrebbero accompagnati nell’Aldilà raccontano la tenerezza e la devozione di una coppia in carne ed ossa. Ci sono le parrucche di Merit, il suo rimmel e il suo fard, le creme per la pelle, c’è il rasoio per la barba di Kha, ci sono i sandali infradito, il letto matrimoniale, le lenzuola di lino che sembrano tessute oggi, e poi l’uva incredibilmente conservata, il pane, il pesce, i latticini, tutto l’occorrente per il “grande viaggio”. Persino la scacchiera che allieterà ancora e per sempre i giorni di Kha... Tutti oggetti che chi ha visitato il Museo Egizio di Torino conosceva già, ma che assumono una luce diversa nel racconto del documentario prodotto da 3D Produzioni, Nexo Digital e Sky in collaborazione con il museo stesso, per la regia di Michele Mally.

«È facile qui suscitare emozioni perché c’è da una parte un tasso di mistero altissimo, dall’altra la commozione delle piccole storie umane, il lavoro, gli scioperi, le poesie d’amore, tutto così identico a noi», commentava il regista Mally nell’anteprima milanese per la stampa. «Sono rimasto sorpreso, l’incontro con questa civiltà non mi ha raccontato una storia di 3.000 anni fa ma i noi stessi di oggi. E poi ho scoperto una categoria umana che non conoscevo, gli egittologi, dei pazzi straordinari». E tanti tra questi prendono la parola, perché il Museo Egizio di Torino vanta oltre 90 collaborazioni nel mondo e i membri del suo comitato scientifico provengono da musei e centri di ricerca internazionali.

A raccontare il dietro le quinte della ricerca archeologica e il lavoro di conservazione e restauro sono quindi numerosi curatori del museo torinese, oltre ai direttori del Louvre a Parigi, del British Museum a Londra, dell’Agyptisch Museum di Berlino, del Museo Egizio al Cairo (l’unica direttrice: velata ma donna!). «A dare la parola ai morti sono io – sorride lo sceneggiatore Matteo Moneta, anche lui meravigliato da ciò che non si aspettava –: ero abituato a vedere la civiltà egizia come di solito viene divulgata, un mistero a basso prezzo, tra marziani che avrebbero costruito le piramidi e una cupezza macabra legata alle mummie. Invece il museo di Torino celebra una civiltà altissima, articolata come quella greca, ricca di un grande pensiero filosofico e letterario. Ho capito che il senso della morte è nato dalla luce tenue del Nilo, da quei paesaggi struggenti, dal tentativo cioè di replicare il bello e la dolcezza del vivere».

Quando 200 anni fa lo straordinario patrimonio di statue colossali, sfingi e mummie umane con i loro corredi giunsero a Torino, il primo a precipitarsi a leggere i papiri fu Jean François Champollion, l’egittologo francese che nel 1822 aveva decifrato la stele di Rosetta svelando la scrittura geroglifica. Fu lui a esclamare che «la strada per Menfi e per Tebe passa da Torino». Ed è grazie al suo genio se i tesori del museo forse meno appariscenti rispetto agli ori e alle mummie, ma certamente più preziosi, ovvero il Papiro dei Re (l’unica lista giunta fino a noi con la successione di tutti i faraoni) e il Papiro delle Miniere (una delle carte geografiche più antiche dell’umanità) sono oggi leggibili.

Il merito maggiore del documentario non risiede allora nel gran nome di Jeremy Irons, troppo caricato e spesso retorico, ma proprio nel suo opposto, nell’umiltà della vita reale che trasuda da uomini e donne così lontani nel tempo eppure identici a noi. «Rallegrati finché vivi, passa giorni felici...», citavamo all’inizio, e come non pensare al «carpe diem» di Orazio e a Lorenzo il Magnifico? (»Chi vuole esser lieto, sia, di doman non c’è certezza... »). «Che sarebbe la beatitudine eterna senza le cose che hai amato nella vita», declama Irons, e non è la versione pagana del nostro desiderio cristiano di ritrovare un giorno i nostri cari nella luce di Dio? «Quello che è noto come Il libro dei Morti in realtà si intitola Il libro per uscire nel giorno », ricorda d’altronde il direttore Greco.

Una copia del papiro l’aveva anche l’architetto Kha dentro al sarcofago, manuale per non compiere errori nel lungo viaggio verso il tribunale degli dei, pronti a pesare il suo cuore (la coscienza) su una bilancia che sull’altro piatto porta una piuma. Non a caso tutti gli organi venivano estratti dal cadavere, solo il cuore restava al suo posto. Allo Studio Ima di Tolosa le mummie vengono “sbendate” virtualmente, con lo scanner, e allora nel 2024 vedi il volto di Kha, ti emozioni, scopri che volle essere sepolto con il collare in oro, premio alla carriera conferitogli dal suo faraone.

Nel 1700 le mummie venivano ridotte in polvere e propinate come “medicinale” o afrodisiaco, nel 1800 le bende erano invece srotolate davanti a un pubblico curioso, racconta il documentario. «Oggi non scordiamo mai che non sono reperti, sono persone, certo non si aspettavano di essere studiate e repertate! Le guardi in faccia e vivi un forte stress, ti senti a disagio», testimonia la restauratrice Cinzia Oliva. A lei si deve la nota più umana, il passaggio più intimo: «Mentre lavoriamo su di loro proviamo grande rispetto, stiamo attenti a parlare a bassa voce, non discutiamo mai davanti a loro. Mettiamo sempre buona musica...».