Inchieste. «Un testimone fragile e potente». Iannacone racconta l'etica del corpo
Il giornalista Domenico Iannacone torna stasera su Rai 3 con "Che ci faccio qui"
«Il rapporto con le persone che intervisto va oltre oltre il giornalista, per me diventano fratelli e sorelle». Domenico Iannacone è una figura atipica nel giornalismo italiano, è uno che a muso duro e cuore aperto entra nelle vite delle persone stabilendo subito una empatia profonda per cercare di capire il loro vissuto in prima persona. È così che ci spiega il suo ritorno da lunedì 30 novembre su Rai 3 in seconda serata con quattro nuove puntate di Che ci faccio qui, prodotta da Hangar Tv d Gregorio Paolini. Storie collettive e individuali in cui l’elemento del corpo ritorna continuamente, fragile e potente. «Il corpo diviene testimonianza di sofferenza, ingiustizia, amore e rinascita – ci spiega Iannacone –. Nella precedente serie, gli elementi erano il rispetto degli uomini, il lavoro, l’immigrazione, l’ambiente. Il corpo è diventata la continuazione naturale di questo assunto. Più si chiede all’uomo di allontanarsi oggi in epoca di pandemia, più mi piace avvicinarmi alle storie. Io faccio una resistenza emotiva e voglio che i corpi si possano toccare, vedere, accarezzare e, attraverso il corpo, riconoscersi».
Nella prima puntata – “Io sono vivo” – Domenico Iannacone riapre la ferita di un lutto nazionale: quello del 29 giugno 2009, in cui alle 23.48 un treno carico di GPL deragliò alla stazione di Viareggio. Morirono 32 persone, tra loro la moglie e i due figli più piccoli dell’uomo che porta ancora sul corpo i segni di quella tragedia: Marco Piagentini. Alla vigilia della pronuncia della Corte di Cassazione su uno degli incidenti più gravi che hanno coinvolto il trasporto su ferro in Italia, Domenico Iannacone incontra l’uomo che si definisce “un miracolo vivente”. Con una forza senza eguali e dopo 60 interventi chirurgici, Marco è ancora oggi il volto e il simbolo di chi si batte per ottenere verità e giustizia per tutte le vittime di quel disastro, e dei tanti altri accaduti in Italia. «È la rivendicazione dell’essere vivo nell’anima » aggiunge Iannacone che entra con rispetto anche nell’esistenza di Daniela Rombi, la madre coraggio che perse la sua giovanissima figlia, morta dopo 42 giorni di agonia.
Poi ci sono le storie lasciate in sospeso e riprese a distanza di tempo. «Storie che sono cartine di tornasole della società » aggiunge il giornalista che nella seconda puntata ritrova dopo sette anni un uomo che ha trasformato la sua fragilità in forza, Max Ulivieri: “Siamo Angeli” racconta la storia tra Max ed Enza, sua moglie, una donna che col suo amore ha scardinato stereotipi e pregiudizi. «Lo conobbi 7 anni fa alla prima puntata di I Dieci comandamenti per parlare della sessualità dei disabili – ricorda –. Oggi Max ha avuto un bambina bellissima che rappresenta l’estensione del corpo di Max». Nella terza puntata Iannacone riprende la storia di Egy Cutolo. Un percorso doloroso il suo, di non accettazione del proprio corpo. “Io e te” è un racconto dedicato al percorso di una donna, ma anche all’amore dell’uomo che è diventato suo marito. Nella quarta e ultima puntata di Che ci faccio qui – “La forma delle cose” – Domenico Iannacone incontra lo scultore non vedente Felice Tagliaferri, figura unica nel panorama internazionale. Suoi il Cristo Ri-Velato e la Pietà ribaltata: il “Nuovo Sguardo” rivolto dall’uomo alla donna. «Felice Tagliaferri è l’emblema della comunicazione sensoriale che vince su tutto – aggiunge Iannacone –. Faceva il centralinista, si scopre scultore. Non potendo toccare il celebre Cristo velato, se lo fa descrivere pezzo pezzo e lo scolpisce. Una storia emblematica».
Ma non finisce qui. A gennaio Iannacone tornerà con un progetto in prima serata su Rai 3, una rilettura dell’Odissea col Teatro Patologico di Dario D’Ambrosi. «Girata durante il primo lockdown, in 135 minuti è un viaggio all’interno delle storie di questi 21 attori speciali – anticipa il giornalista –. Avrà tre livelli narrativi: l’Odissea omerica, l’Odissea personale di ognuno di loro affetti da diverse patologie mentali, in più l’Odissea del regista Dario D’Ambrosi perennemente in fragilità per il mantenimento di questo esperimento sociale».