Le biografie. Un costruttore che seppe guardare alle future generazioni
Alcide De Gasperi al seggio elettorale
«Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me». Nulla più delle memorabili parole con cui alla Conferenza di pace avviò, da «ex nemico», il suo intervento, dà la cifra di chi sia stato Alcide De Gasperi nella storia italiana ed europea: un “costruttore” capace di un’inventiva, di inaspettati picchi comunicativi, mai finalizzati però alla crescita di un consenso personale o di parte ma solo al riscatto di un Paese messo in ginocchio dal Ventennio fascista e da una guerra rovinosa. Il costruttore (Mondadori, pagine 204, euro 19) è una biografia ragionata, scritta in chiave divulgativa da Antonio Polito che ne fa discendere «cinque lezioni» per la politica di oggi affamata di facili consensi, e traballante in storia. Meno di dieci anni della sua vita, gli ultimi, hanno fatto di lui lo statista che conosciamo, ma ancora troppo poco, perfetta incarnazione di una frase che ripeteva spesso («Un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista guarda alla prossima generazione») da attribuire in realtà allo statunitense James Freeman Clarke.
Due colpe gli vengono inflitte nella fase giovanile. Per cancellare la prima, l’accusa di essere stato un “austriacante” basta solo ricordare il suo arresto, nel 1904, nei “fatti di Innsbruck” in difesa dei diritti di docenti e studenti italiani e la detenzione nelle carceri imperiali per ben 20 giorni. Ma anche la seconda, il sostegno al primo governo Mussolini – con grande rammarico di don Sturzo, di cui si pentirà amaramente ben presto – ritenuto «una necessità per evitare il male maggiore» di una vittoria comunista, può esser archiviata ricordando la lunga detenzione che gli riservò Mussolini e l’impiego poi come umile bibliotecario in Vaticano che gli risparmiò l’esilio.
Una sorta di “grazia di Stato” gli conferì nei momenti decisivi un’intraprendenza che andava oltre il suo carattere umile e schivo. Come quel 10 agosto 1946 alla Conferenza di Parigi, o come all’indomani del referendum del 2 giugno, quando «con estrema fermezza» indusse all’esilio un «riluttante» Umberto II.
Piuttosto defilato, da capo del governo, quando il suo Paese fu chiamato a scegliere fra monarchia e Repubblica o a decidere la nuova Costituzione – in un rispetto, oggi sconosciuto, della separazione fra lo spirito di parte di una maggioranza di governo e spirito condiviso che deve animare le riforme – De Gasperi viene oggi accostato, nell’immaginario collettivo, alla storica vittoria della Dc nelle elezioni dell’aprile 1948, all’avvio del piano Marshall, all’ingresso nella Nato, e all’avvio del processo unitario europeo. Così, a 70 anni dalla morte, in un incerto bipolarismo alla perenne ricerca di legittimazioni storiche, De Gasperi, centrista per antonomasia, è vittima post mortem di una “tiratura della giacchetta” di qua e di là, ma la prima “lezione” che Polito trae è che «il vero democratico è antifascista e anticomunista allo stesso tempo». Ruppe con Togliatti, ma subì anche, per la preclusione opposta alla destra, una cocente umiliazione, quando si vide negata da Pio XII l’udienza per i 30 anni di matrimonio con la moglie Francesca e in vista dei voti perpetui di sua figlia Lucia, che stava per farsi suora. La ragione era il fermo rifiuto che aveva opposto all’ipotesi, caldeggiata dal Papa, di una grande alleanza che includesse l’Msi e i monarchici alle elezioni al Comune di Roma, per arginare il rischio di una vittoria nella Città eterna del fronte comunista. L’alleanza centrista alla fine riuscì a spuntarla anche senza i voti della destra, ma la fratture con il Papa rimaese. De Gasperi fu molto turbato da quel rifiuto: «Come cristiano accetto l’umiliazione benché non sappia come giustificarla; come presidente del Consiglio italiano e ministro degli Esteri, la dignità e l’autorità che rappresento e della quale non mi posso spogliare neanche nei rapporti privati, mi impone di esprimere lo stupore per un rifiuto così eccezionale e di riservarmi di provocare dalla Segreteria di Stato un chiarimento», scrisse.
Ma il fatto è che «spesso citiamo De Gasperi senza aver letto nemmeno un rigo di quanto ha scritto o pronunciato durante la sua lunga carriera politica», lamenta Leonardo Brancaccio. Giurista e storiografo, segretario generale della scuola di Economia civile. Brancaccio con Alcide De Gasperi. Cittadinanza attiva, buona politica, bene comune (Ecra, Edizioni del credito cooperativo, pagine 146, euro 20) si inserisce in questo deficit di conoscenza con un volumetto agile, ma ricco di fonti e citazioni. Dal celebre discorso al teatro Brancaccio , il primo dopo la censura del Ventennio, pronunciato il 23 luglio 1944, subito dopo la liberazione della Capitale dai nazifascisti, in cui per la prima volta prende per mano le sorti dell’Italia, rivolgendo «due preghiere» agli alleati. All’ultima battaglia combattuta inutilmente dal ritiro di Selva Valsugana, già sofferente in salute e anche nello spirito, perché avverte che la sua idea di dare una prospettiva politica alla Comunità europea sta per svanire. Scrive al presidente del Consiglio Amintore Fanfani preoccupato e sfiduciato per il “no” della Francia alla Ced, la Comunità europea di Difesa, indicando con grande lungimiranza «la costruzione della “patria Europa” in cima ai nostri interessi», perché «la comunità europea vuol dire la pace. Ma non ho la forza né la possibilità per levare la voce, almeno per allontanare dal nostro Paese la corresponsabilità di una simile iattura». Morì con questo cruccio qualche giorno dopo. «Gesù», fu l’ultima parola che riuscì a pronunciare. Fu un santo? Polito pensa di sì, e avanza una modica proposta a papa Francesco, in vista del Giubileo del 2025. «Concludere la fase diocesana del processo in corso, così da poterlo definire almeno “venerabile”».