Agorà

Il caso. Un calcio al razzismo? Ma diamolo sul serio

Massimiliano Castellani venerdì 22 marzo 2024

L'interista Francesco Acerbi (a sinistra), accusato di aver rivolto frasi razziste al giocatore del Napoli Juan Jesus (a destra)

«Le parole sono importanti», ci ricorda Nanni Moretti. Su un campo di calcio le parole dell’odio rimbalzano tra il campo e la tribuna e la colonna sonora oscilla tra “faccetta nera” e “negro vai via”. Quest’ultimo ritornello, “negro vai via” (testuale: «Vai via sei solo un negro») forse, il difensore dell’Inter Francesco Acerbi, lo avrebbe vomitato al suo collega di reparto del Napoli, ed ex Inter, Juan Jesus. La questione è seria, ma da domenica scorsa siamo arrivati alla banalizzazione del malessere sociale che trova nello stadio la solita gran cassa. Con il passare dei giorni, la tiritera acrobatica dell’opinione pubblica è arrivata a coinvolgere anche le scolaresche sul tema del razzismo. Giusto, perché agli ultrà del bieco “nazionalismo” va ricordato sempre che sono, siamo membri, di una società multietnica con scuole, che gli piaccia o no, in cui i loro figli convivono anche con l’80% di compagni di classe che sono a loro volta figli di stranieri - molti di colore – ma nati e cresciuti in Italia. Perciò, il caso Acerbi-Juan Jesus non facciamolo diventare una farsa ma un momento di riflessione che tracci una linea di rettitudine da cui ripartire in maniera più ordinata e civile possibile.

Il calcio avrebbe questo potere, in quanto linguaggio universale. Con il collega Adam Smulevich ci abbiamo provato qualche anno fa a tracciare la nostra retta con Un calcio al razzismo. Venti lezioni contro l’odio (Giuntina), libro che con l’assist dell’ad della Lega di Serie A Luigi De Siervo era finito nelle mani di 250 calciatori delle 20 squadre della massima serie. Teoricamente potrebbero averlo letto anche Acerbi e Juan Jesus. E visto che il primo, l’incriminato, Acerbi, prova a scagionarsi tirando in ballo il filmato di Inter-Napoli in cui per scusarsi con Juan Jesus indica il compagno di squadra Marcus Thuram (dicendo «lui lo sa che non sono razzista») allora si vada a leggere il libro di papà Lilian (Thuram) Le mie stelle nere in cui ci ricorda che Lucy l’australopiteco che visse 3 milioni di anni fa in Africa è «la mamma di tutta l’umanità». Pertanto termine “negro” che nel politicamente corretto giustamente è considerato discriminatorio, è un doppio autogol se pronunciato da quei calciatori allenati a pensare esclusivamente con i piedi. A discolpa di Acerbi, che per il fattaccio ha perso la Nazionale (fuori dai convocati per le due amichevoli americane negli Usa contro Venezuela ed Ecuador, e non perché in quelle selezioni pullulano calciatori di colore) e ora per una certa fronda moraleggiante anche la faccia, ricordiamo che il ragazzo è un professionista di lungo corso, per ruolo ruvido e verace, ma anche uno che alla Lazio non si fece intimidire e non chinò il capo neppure di fronte all’orda balorda fascista che lo minacciava quotidianamente, e anche per questo il presidente Lotito fu costretto a cederlo all’Inter. Acerbi è un credente dichiarato e chi lo conosce a fondo anche un uomo generoso e dal cuore aperto al prossimo, specie dopo aver superato, «con l’aiuto di Dio» (parole sue) un periodo davvero nero in cui la sua carriera era stata messa in forte dubbio da un tumore al testicolo. Ecco, Acerbi è un ragazzo sano e anche con gli attributi, il più delle volte. Ma come ha scritto giustamente Marco Ciriello sulle colonne di Domani fa parte di quella categoria della società liquida in cui «sono tutti bravi ragazzi che saltuariamente sono omofobi, razzisti, xenofobi, fascisti, ma solo un po’». Pirandello insegna che siamo uno, nessuno e centomila, sta a noi scegliere la maschera da indossare e quale ruolo recitare nel mondo. Con il passare dei giorni dicevamo questi ruoli nella vicenda Acerbi vs Juan Jesus si confondono, e la parola dell’uno vale quanto quella dell’altro, specie se la prova tv non fa luce in maniera inconfutabile sull’accaduto. Siamo al paradosso: nel calcio moderno ostaggio delle cento telecamere appostate anche sotto le docce dello spogliatoio e dipendente dalla tecnologia e dall’invasivo Var, non si riesce a fare giustizia con uno straccio di prova filmata. Compito di spazzare via le ombre e i sospetti oggi spetterà al procuratore federale Giuseppe Chinè che collegato in videoconferenza con Appiano Gentile ascolterà la versione di Acerbi

Come finirà? Se volessimo farla facile basterebbe rifarsi ai due precedenti che fanno giurisprudenza, ma qualcuno obietta che non erano due episodi da Serie A, ma verificatisi in B e in C. Nel torneo cadetto 2020-2021 Michele Marconi del Pisa per un insulto razzista rivolto a Joel Obi del Chievo rimediò 10 giornate di squalifica. Filo comune di tre dei quattro calciatori in questione è la maglia nerazzurra. Anche Obi classe 1991 vanta lunghi trascorsi all’Inter dove era arrivato 14enne dalla Nigeria. Dopo 39 gare e 1 gol è cominciato il suo peregrinare in giro per l’Italia, da Parma, con rientro all’Inter e poi una mezza dozzina di squadre fino all’ultimo approdo attuale alla Vis Pesaro, in C. Quella serie C in cui le telecamere sono meno folte e dove nessuno si sarebbe accorto del fattaccio accaduto il 17 gennaio 2021 in Sambenedettese-Padoil va. Protagonisti: Claudio Santini, attaccante dei veneti apostrofava con «negro...» il centrocampista ghanese della Samb Shaka Mawuli. E anche in quel caso il Procuratore Federale fece condannare Santini a 10 giornate di squalifica. Anche in quel caso nessuna prova televisiva, ma la denuncia del calciatore e del club marchigiano bastò. Oggi Mawuli è in forza all’Arezzo (serie C) e di quella vicenda è tornato a parlare di recente anche nelle scuole in cui ha portato la sua testimonianza. A dei ragazzi delle medie aretine, nell’ambito del progetto promosso dal club amaranto “A scuola di tifo”, Shaka ha ricordato il brutto episodio, ma con il senno di poi si è detto anche «dispiaciuto per la squalifica molto pesante dell’avversario». Questo si chiama buon senso, un possibile calcio d’inizio per una nuova cultura sportiva che, solo con il detonatore del fairplay, può disinnescare le reiterate bombe razziste in campo e soprattutto sugli spalti. La maggior parte delle violenze verbali infatti arrivano dalle Curve, come insegna il “caso Maignan”: il portiere del Milan che a Udine in questa stagione uscì momentaneamente dal campo in risposta agli pseudotifosi friulani che lo avevano bersagliato dall’inizio della gara.

Ma fino ad oggi solo un calciatore, Omar Daffe ha avuto il coraggio di uscire e non rientrare in campo dopo la grandinata di insulti razzisti che gli erano piombati addosso durante una partita dell’Eccellenza emiliana, Bagnolese- Agazzanese. Daffe, allora (novembre 2019) era il portiere dell’Agazzanese e all’ennesimo insulto dei tifosi della Bagnolese lasciò il campo e con lui lo abbandonarono, solidali, tutti i compagni di squadra. Risultato? Il giudice sportivo punì da regolamento (parliamone) Daffe, con un turno di stop e alla sua squadra fu inferto il 3-0 a tavolino con la penalizzazione di 1 punto in classifica. «Si parla tanto di razzismo, ma poi quando c'è l’occasione concreta di fare qualcosa non si fa nulla...», fu il commento sconsolato di Daffe che ora è diventato un punto di riferimento per la lotta al razzismo. De Siervo quattro anni fa lo ha nominato responsabile dell’Ufficio antirazzismo della Lega di Serie A e il suo compito è quello di sensibilizzare, formare e soprattutto “educare” all’antirazzismo, dai professionisti fino ai ragazzi dei campionati Csi. Questo lavoro è iniziato nel 2020, ma senza una nuova sensibilità ogni settimana saremo costretti a ricominciare dal deplorevole punto di partenza.