Agorà

Un apologo a metà sulla carità

mercoledì 5 ottobre 2011
DI MARINA CORRADI I n una chiesa dismessa per mancanza di fedeli gli operai tirano giù il crocefisso. Il vec­chio parroco si tormenta. Ma quel­la notte un manipolo di clandesti­ni occupa la navata vuota, ci si ac­campa. Il vecchio prete li accoglie, e li difenderà da chi vuole denun­ciarli, e da minacciosi vigilantes in caccia, nella città buia e ostile. Il villaggio di cartone , di Ermanno Olmi, da Vene­zia ora in arrivo nelle sale, a­vrebbe gli ac­centi per essere letto come un elogio dell’ac­coglienza del-­l’altro, in acce­zione evangeli­ca: l’altro, lo straniero, l’ulti­mo, cui i cristiani sono chiamati a dare rifugio. E, pure nell’amarez­za della chiesa sventrata, del cro­cefisso rimosso, inizialmente ci si può consolare col fatto che quel tetto almeno dà asilo a dei poveri; e con quel parto di una madre clandestina, cui il vecchio prete ri­sponde inginocchiandosi nella chiesa occupata e cantando Ade­ste fideles . Ma poi l’apologo della carità si sbreccia. Nella solitudine della ca­nonica il prete ripercorre e coltiva tutti i dubbi della sua fede, il caro prezzo pagato al celibato come la distanza che lo separa da Cristo, che lo guarda «da un tempo trop­po lontano». «Ho fatto il prete per fare del bene» dice «ma per fare il bene non serve la fede. Il bene è più della fede». Che sembra la desolata presa d’at­to di un fallimento; mentre su u- na tv accesa nella canonica passa e ripassa l’immagine di una barca arenata e sfasciata, trasparente i­cona della Chiesa. In realtà però il bilancio del vecchio sacerdote sembra viziato da un equivoco. Non ci si fa prete «per fare del be­ne », ma per portare Cristo agli uo­mini, che è assai di più. Ed è vero, per fare il bene non serve la fede, lo possono fare ottimamente an­che le Ong; ciò che però sembra confusa o rinnegata è, nel film, la ragione del be­ne, della carità cristiana. Quel­la ragione che non è un volon­tarismo indefi­nito, ma è Cri­sto; è ricono­scere in ciascu­no il volto di Cristo («Io fac­cio ciò che fac­cio perché vedo in ogni povero Cristo», diceva madre Teresa). Invece, nel Villaggio del cristiano Olmi questa memoria è appanna­ta. Cristo è «lontano nel tempo», sbiadita icona di cui il cuore du­bita. Lo stesso regista poi va di­chiarando in questi giorni che, al­l’età di ottant’anni, si sente «ormai libero da tutte le Chiese». Bene, ma sia lecito invece a chi nella Chiesa vuole stare, misurare an­che la distanza da questo film di un grande e poetico narratore del­la fede e dei suoi «cammini» spes­so faticosi. Condivisibile nella pas­sione per la carità, che, come di­ceva Paolo, delle virtù è la più grande; ma come abbagliato in ciò che è, per un cristiano, della carità il fondamento. Cioè non un nobi­le 'valore', o un ricordo sbiadito, ma Cristo, vivo e operante nella storia. «Radicati e fondati in Cri­sto », esortava il motto delle gior­nate che hanno visto a Madrid con Benedetto XVI due milioni di ra­gazzi. Come insiste questo Papa, e pri­ma di lui il suo predecessore, su Cristo, accanto e vivo. Ma pare che anche fra i cristiani questa sia la parola più difficile da credere. A un giornalista che gli chiedeva che ne è di Dio, Olmi, riferisce il Cor­riere, ha risposto: «L’altro giorno ho letto di una stella implosa e di un’altra nata nel contempo. Così lontana, che la sua luce ci rag­giunge quando lei potrebbe esse­re già morta. Quella luce, che for­se non c’è più ma è eterna, a me fa venire in mente Dio». Dio come la luce di una stella estinta, che arri­va quando ciò che l’ha emanata è già morto. Si respira questo sguar­do nella penombra cementizia della chiesa dismessa dell’ultimo Olmi. Che è un forte appello al­l’accoglienza dei poveri che bus­sano al nostro mondo. Ma, colti­vando dubbi e smemoratezza, perde la radice e il fondamento della carità dei cristiani. Certo, ri­mangono le Ong, l’Acnur, la buo­na volontà dei non credenti. La ca­rità cui Paolo inneggia nella lette­ra ai Corinzi, però, era un’altra: «Caritas Christi urget nos», «l’a­more di Cristo ci spinge». Nel film dedicato agli ultimi e all’accoglienza il regista coltiva così tanti dubbi di fede che la storia rischia di perdere la radice e il fondamento della carità dei cristiani