Elzeviro. Umorismo ebraico, il segreto si trova in Isacco
Il regista e comico Woody Allen (Ansa)
La legna c’è, il fuoco anche, manca l’agnello. Ma l’agnello dov’è, chiede Isacco a suo padre. La domanda, per noi che ormai conosciamo il seguito, è agghiacciante, leggendola ci sentiamo un po’ colpevoli rispetto alla vittima apparentemente ignara del suo destino. Ma c’è di mezzo Dio, e la responsabilità di Abramo è verso di lui, non verso gli uomini. La parola chiave è «eccomi»; fede assoluta fino all’orrore di sacrificare il proprio figlio; eppure ciò che è irresponsabile verso gli uomini lo diventa, paradossalmente, attraverso il sì a Dio. Si supera quel circolo chiuso del dare e avere, la razionalità di un calcolo, e si rende sacro l’olocausto. Ne ha lungamente parlato Derrida in Donare la morte. Eppure, quella domanda suona strana: dov’è l’agnello? Sarà stato davvero così tonto Isacco da non avere nemmeno il sospetto che qualcosa non tornasse in ciò che stavano facendo?
Un libro di James Hillman sul puer e il senex racconta proprio di un padre ebreo che mette alla prova la fiducia del figlio per renderlo più forte attraverso una promessa non mantenuta: in un certo senso, bisogna diffidare anche dei padri (Freud non viene forse da lì?). La scena di Isacco che si dispone sull’altare del sacrificio mi ha sempre suscitato due opposti sentimenti, il tremore kierkegaardiano e l’ironia allegra di chi, nel discorso sacrificale, coglie un tarlo all’opera. E il tarlo si chiama Isacco, “colui che ride” significa il suo nome. E se fosse un gioco da bambini? Facciamo finta che... Devorah Baum inizia proprio da questa scena il suo divertente e intelligentissimo saggio-repertorio La barzelletta ebraica (Einaudi, pagine 136, euro 12).
Se vogliamo, l’episodio biblico di Abramo e Isacco pecca un po’ di lieto fine. Dio invia il suo luogotenente alato a fermare il braccio del vecchio patriarca. Ha forse anticipato di millenni il meccanismo liberatorio del cinema hollywoodiano? Happy end... Non è così, ha semplicemente mostrato come vi sia anche nelle cose più tragiche un risvolto comico. Abbiamo trattenuto il respiro finché l’angelo non ha fermato Abramo. A esser comici siamo noi, non Dio, che ci mostra cosa sia la fede assoluta e quanto siamo ridicoli perché, come Abramo, ci siamo cascati: «Classico ribaltone – spiega Baum –. E Abramo ci era cascato, eccome se ci era cascato. Il Dio degli ebrei è un burlone di prim’ordine. È il Dio che se la ride di brutto quando, come dice il vecchio adagio, gli esponi i tuoi piani». Torniamo a Hillman e al sospetto verso i padri; da lì risaliamo a Freud e, in definitiva, aveva ragione Ricoeur a considerare il Novecento l’epoca dei «maestri del sospetto».
Chi più di Kafka si è appropriato di questo meccanismo dove il tragico partorisce il comico? Così Kafka e Kierkegaard, attraverso Abramo, ci mostrano come la comicità nasca dalla nostra inadeguatezza. Alimentando questo mantra, l’autrice sottolinea che gli ebrei sono i più grandi shlemiel della storia, i grandi sprovveduti. Ma anche questa è una barzelletta: sprovveduti come Isacco, colui che ride? La quintessenza dell’ebraicità è – scrive Baum – «essere in disaccordo con se stessi», essere diversi, con un po’ di orgoglio e un po’ di vergogna, aggiunge. Per cui «l’autodenigrazione ha un ruolo chiave nell’umorismo ebraico». Come accade spesso nei film di Woody Allen, la battuta di spirito mette in gioco l’ebreo e il suo alter ego, l’altro se stesso.
Due ebrei vedono da lontano due tizi che vengono loro incontro, e uno dice all’altro: «Itzik, che facciamo adesso? Loro sono due e noi siamo soli!». La solitudine e le lamentazioni continue. Un ebreo dal dentista si risente perché il dottore scherza sulle polpette di pane azzimo: «Jerry è dell’avviso che il suo dentista dovrebbe andarci cauto con le barzellette ebraiche – ci vogliono millenni di persecuzioni per conquistarsi un senso dell’umorismo del genere». Già. Abbiamo alle spalle un secolo di sterminio. Milioni di vittime. E con altri effetti collaterali che pesano anche sul nostro modo di ridere.
Può la religione ridere di sé? Sì, gli ebrei lo fanno, i musulmani poco e i cattolici forse troppo. Può la religione tollerare che un altro rida di essa? Il caso “Charlie Hebdo”, pur nel suo eccesso di satira, dimostra che ridere di una religione e dei suoi testimoni può essere vissuto come un vilipendio e si finisce a «morire dal ridere» come dimostrò Riccardo De Benedetti nell’omonimo saggio all’indomani dell’attentato. Se un “gentile” ride di un ebreo, oggi, è autorizzato o rischia il sospetto di antisemitismo? Ma anche gli ebrei raccontano surreali barzellette sui “gentili”. Ridere fa buon sangue anche alla religione? Credo di sì, a patto che poi non lo si versi.